Lo chiamavano Alì, ma soltanto perché è un nome corto e facile da pronunciare. Era un ragazzo di 14 anni venuto dal Marocco per sfuggire alla fame. Abitava, insieme con altri tre immigrati, in una stanzetta nei “carruggi” di Genova. Ogni mattina d’estate, curvo sotto un gran sacco gonfio di roba, saliva sul treno e si fermava in una delle tante stazioni della Riviera ligure. Andava su e giù per le spiagge, silenzioso e discreto. Si fermava soltanto se era invitato a farlo. Allora mostrava la sua mercanzia.
Come fosse Eta Beta, dal suo fardello usciva di tutto: magliette, borse, cinture, occhiali, scarpe, cd, videogames, orologi. Tutta merce griffata, ma falsa. Quindici euro per una maglietta con il coccodrillo, che quand’è autentica ne costa 90; venti euro per un paio di occhiali firmati Armani o Calvin Klein, che in negozio si vendono a 130; sessanta euro per un orologio Rolex, quasi impossibile da distinguere dal “fratello” originale il cui prezzo supera i 3 mila euro. Difficile anche trovare le differenze fra la vera e la contraffatta borsa Louis Vuitton (una 600, l’altra 40 euro) o le due cinture Gucci, simili ma non nel prezzo: 130 e 20 euro.
Un giorno, proprio mentre scendeva infardellato sulla spiaggia, Alì è stato fermato da due vigili urbani, che gli hanno sequestrato la merce. Il ragazzo è stato anche denunciato. Il giorno dopo è sparito. Nessuno sa che fine abbia fatto. Raccontata così, la storia del giovane marocchino è fuorviante. Rischia di far apparire il mercato del falso come un grande gioco, un imbroglio che fa sorridere ed esprime fantasia, arte di sopravvivere, ingegno.
A scuola, del resto, insegnano ad ammirare l’astuzia di Ulisse, “homo callidus”, furbo, e il suo cavallo di Troia. Se Atene e Sparta non punivano la truffa e anzi la consideravano un atto di intelligenza, noi conserviamo una divertita curiosità per i turlipinatori. Certo, Alì era soltanto l’ultimo anello di una catena di produzione truffaldina. Lui non ingannava nessuno: i suoi clienti sapevano di acquistare un “fac simile”. Ma ignoravano, o fingevano di ignorare, che il grande business dei falsi è spesso collegato a lavoro nero, riciclaggio di denaro sporco e altre attività criminali. Molte industrie della contraffazione fanno capo a società fantasma con amministratori prestanome e sede in uno dei tanti paradisi fiscali. Comprando quei prodotti, si rischia di finanziare traffici illeciti.
Giustizia impotente
L’industria mondiale della contraffazione non è uno scherzo: fattura 600 miliardi di dollari l’anno, quasi la metà del Pil italiano. Rappresenta il 7% del commercio globale, negli ultimi dieci anni è aumentato del 1.600%, provocando però la perdita di 200 mila posti di lavoro regolari. Terza nel mondo (dopo Cina e Corea) come produttore di falsi, prima in Europa per consumo, l’Italia sembra diventata il Paese dei “pirati”: si acquistano sempre di più i prodotti contraffatti, anche perché è debole il potere di dissuasione della legge a causa dei tempi troppo lunghi della giustizia.
Inaugurando l’anno giudiziario, il procuratore generale della Cassazione Francesco Favara ha denunciato nella sua relazione che nel 2003 le truffe sono aumentate del 21% e 4 reati su 5 restano impuniti. Così il fenomeno dilaga. Alcuni esempi: lo scorso anno sono stati “masterizzati” illegalmente 12 milioni di cd. Uno su 4 in circolazione non è originale.
Il mercato italiano del software vale 1,6 miliardi di euro, il tasso di pirateria è del 45%. Solo tra i videogiochi la contraffazione arriva al 74% su un totale di 12,5 milioni di pezzi venduti all’anno. Per qualcuno, visto che gli originali sono riservati a pochi ricchi, si tratterebbe addirittura di “giustizia sociale”. Resta il fatto che le aziende vittime della pirateria perdono tra i 4 e i 6 miliardi di euro di fatturato e lo Stato ha un buco di 1,5 miliardi per i mancati incassi fiscali.
Le grandi marche che fanno la moda dapprima hanno subìto senza fiatare e anzi erano persino compiaciute: se mi copiano, vuol dire che mi apprezzano. Poi si sono spaventate della forza dirompente degli imitatori. Le borse di Vuitton, disegnate dal giapponese Murakami, si sono trovate prima sotto i portici di piazza del Duomo che nel megastore di via Montenapoleone dove bisognava iscriversi nella lista di attesa e aspettare un mese e mezzo per fare l’acquisto. I vestiti di Roberto Cavalli erano in circolazione due mesi prima della consegna ufficiale e legale. Dice lo stilista: “Pensare che quando hanno iniziato a falsificare anche i miei abiti, mi sono detto: è fatta, sono famoso. Poi mi sono accorto che il falso è un rischio mortale per qualsiasi marchio”.
Vigili e poliziotti tentano invano di fermare l’industria della contraffazione. L’ultima grande operazione risale alla scorsa estate, quando la Guardia di Finanza ha confiscato vicino a Roma 60 mila capi provenienti dalla Romania e 500 mila etichette false. Tutte delle marche preferite dai ragazzi: Diesel, Lonsdale, Guru, Pickwick. Per difendersi dagli imitatori, 64 case francesi, da Dior a Chanel, hanno formato un’apposita associazione. In Francia la legge che regola questo settore è più severa che in Italia e prevede 2 anni di prigione anche per i clienti dei “pataccari”.
E’ proprio questo che i francesi chiedono agli italiani: pene più repressive. Di combattere i contraffattori abbassando i prezzi, manco a parlarne! Anzi, il ragionamento che fanno i padroni delle “griffe” sembra esattamente l’opposto: più è imitato, più è chic esibire l’autentico. Diciamo la verità: essi puntano sulla vanità di molti clienti, disposti a strapagare un oggetto soltanto perché ha un segnetto che lo contraddistingue.
E dal momento che una grossa fetta degli acquisti è decisa dai più giovani, è forse il caso di lanciare tutti assieme un invito: sveglia ragazzi, non lasciatevi abbindolare da una “griffe”, falsa o vera che sia. La moda fatela voi, come vi pare. Senza copiare nessuno, sapendo che quello che conta è essere, non apparire.
LIDIA GIANASSO