Aumentano in modo preoccupante i ragazzi impiegati in Italia nel mondo del lavoro, anche se la legge lo proibisce. E sovente guadagnano una paga da fame. Le differenze tra Nord e Sud.
Il mese scorso Diego ha compiuto 13 anni. Ci avrebbe tenuto a festeggiarli con gli amici del quartiere: una fetta di torta cucinata dalla mamma e un bicchiere di aranciata consumati nella piazzetta sotto casa, commentando le novità del calciomercato e inseguendo il fresco all’ombra di qualche albero. Quel giorno - però - Diego gli amici non li ha neppure intravisti, perché erano partiti tutti per le vacanze. Lui, invece, ha trascorso l'intera giornata sotto i colpi dell’afa e del sole cocente, trasportando mattoni e calce nel cantiere edile in cui lavora - sei giorni alla settimana - da quando la scuola ha chiuso i battenti.
Una piaga inarrestabile
La vita di Diego non è facile. E non lo è mai stata. Vive in un piccolo comune in provincia di Napoli con i genitori, tre fratelli e due sorelle in un alloggio composto di tre stanze e una cucina. Dovrebbe frequentare la terza media, ma è ancora in prima perché è stato bocciato due anni. Da tre alterna lo studio con il lavoro per aiutare la famiglia ad arrivare a fine mese senza debiti. “Papà fa il muratore - afferma con orgoglio, strofinandosi le mani già callose, imbrattate di calce e di vernice - . Si ammazza di fatica tutto il giorno ma guadagna poco. Quando è troppo stanco e non ce la fa più, io lo sostituisco per qualche giorno, così può riposare”.
La legge italiana stabilisce che i ragazzi e le ragazze di età inferiore ai 15 anni non devono e non possono lavorare. Secondo però i dati di una recente indagine, svolta nei mesi scorsi dall’Ires, l’“Istituto di ricerche economiche e sociali”, in collaborazione con l’associazione sindacale Cgil, i bambini e i ragazzi tra i 7 e i 14 anni che, come Diego, vengono impiegati e sfruttati nei luoghi di lavoro sono circa 400.000. Di essi, almeno 70.000 lavorano dalle quattro alle otto ore al giorno per una paga da fame, che oscilla tra i 200 e i 500 euro al mese. Il 57% è impiegato nel commercio, il 20% nell'artigianato e l'11% nell'edilizia.
I 400.000 baby-lavoratori, ovviamente, non sono tutti italiani. La cifra, infatti, include anche i figli degli immigrati e i circa 35 mila minorenni che vivono in Italia clandestinamente. “Sono dati allarmanti - denuncia Guglielmo Epifani, segretario della Cgil - e purtroppo tenderanno a crescere nei prossimi anni”.
A differenza di quanto accade in altri Paesi del mondo, la maggior parte dei bambini che lavorano in Italia ha la possibilità di frequentare la scuola. Anche se, già a sei anni, sono costretti a rinunciare a trascorrere il tempo libero tra giochi, sport e la tv per “dare una mano” alla famiglia. Questo accade - in alcune regioni italiane - ai bambini cinesi impiegati nei laboratori di pelletteria o nelle cucine dei ristoranti.
Per il pane e per il telefonino
Le cause che spingono i bambini e i ragazzi a varcare precocemente le soglie del mondo del lavoro sono molteplici. Al Nord è soprattutto il desiderio di vivere la vita “al massimo”, senza rinunciare ai modelli più recenti di telefonino, alla sala-giochi, al motorino rombante, agli abiti firmati e alle scarpe di marca.
Come Alessio, di 10 anni, che vive in provincia di Bergamo e dopo la scuola - da lunedì a sabato - lavora come fattorino presso un negozio di alimentari del centro. “Molti clienti ordinano la spesa via internet - spiega con fare disinvolto, riparando lo sguardo dietro gli occhiali da sole pubblicizzati da un famoso cantautore - . Io aiuto il titolare a fare le consegne e guadagno 35 euro alla settimana. Così posso comprarmi le scarpe o il cellulare senza chiedere i soldi ai miei genitori”.
Al Sud - invece - la maggior parte dei bambini e dei ragazzi che cominciano a lavorare prima dei tempi stabiliti dalla legge vuole combattere la fame e la miseria e “regalare” alla famiglia una vita senza preoccupazioni. Non di rado, però, sono proprio i famigliari a spingere i ragazzi a lavorare, sottovalutando l'importanza della scuola e dell'istruzione.
È il caso di Gaetano, 11 anni, da quattro pastore in un paesino vicino a Reggio Calabria. “La scuola mi piace, ma spesso mi addormento sul banco - racconta, mentre ripone i libri nella cartella - . La maestra mi ha domandato mille volte perché non riuscivo a seguire le lezioni come gli altri compagni. Ma io mi vergognavo e non rispondevo. Un giorno mi ha mandato dalla preside e ho dovuto confessarlo: ogni notte mio padre mi sveglia prima dell'alba e, insieme, andiamo a pascolare il gregge. Con il latte facciamo il formaggio e le portiamo ai negozianti. Verso le 7 torniamo a casa, faccio colazione e mi preparo per andare a scuola”.
La maestra pensa che Gaetano abbia l’intelligenza e la volontà necessarie per continuare gli studi. Ma secondo i suoi genitori è inutile. “A che gli serve studiare - si domandano - se tanto poi farà il pastore?”.
CARLO TAGLIANI