Alcune zone del pianeta sembrano finite sotto il tiro incrociato di devastanti fenomeni meteorologici. Sono tifoni, trombe marine, cicloni. Nomi diversi, ma identici effetti: dove passano, lasciano solo distruzione. Perché si intensificano sempre più.
L’uragano Katrina che alla fine di agosto ha devastato New Orleans rimarrà nella storia come una delle più spaventose manifestazioni della natura. Bastano poche cifre per riassumere il disastro. Oltre 1000 persone uccise direttamente dalla furia dell’uragano e più di 500 dalle sue conseguenze sanitarie (infezioni, inquinamento delle acque e dei cibi). Devastati 233 mila chilometri quadrati, cioè una superficie pari a tre quarti dell’Italia. Danni per 200 miliardi di dollari in Louisiana, Mississippi, Alabama e sud della Florida. Più di 280 chilometri all’ora la massima velocità raggiunta dal vento. Sessanta miliardi di dollari già stanziati dal governo americano per rendere di nuovo abitabile New Orleans, la città simbolo della musica jazz.
Il vortice di Katrina si è formato il 23 agosto sul Golfo del Messico per disperdersi nove giorni dopo sulla costa Est dell’America del Nord. Una lunga vita, durante la quale i meteorologi si sono illusi che la potenza distruttrice si sarebbe rapidamente attenuata. Ma non è stato così. E il cedimento delle dighe che regolano il Mississippi ha completato il disastro: la popolazione si è trovata nella morsa di due alluvioni, una proveniente da Sud e una proveniente da Nord.
A memoria d’uomo, mai visto niente di così terrificante. Ma se andiamo indietro nel passato, troviamo tragedie altrettanto terribili. L’8 settembre 1900 la città di Galveston, nel Texas, fu spazzata via da un tifone e le vittime furono più di 6.000. Il vento toccò i 350 chilometri all’ora intorno all’occhio del ciclone e la pressione atmosferica subì uno sbalzo di 40 millimetri in tre ore. È vero però che negli ultimi anni questi eventi catastrofici estremi sono diventati più frequenti.
La maggioranza degli scienziati che studiano il clima è d’accordo nel dire che succede a causa dell’effetto serra causato dalle attività dell’uomo. L’aria contiene da sempre piccole quantità di gas ad effetto serra e il più importante è l’anidride carbonica. Bruciando petrolio, carbone e metano l’uomo ha fatto aumentare l’anidride carbonica presente nell’atmosfera da 290 parti per milione alla fine dell’Ottocento alle attuali 280 parti per milione.
L’anidride carbonica è trasparente alla luce del Sole ma è opaca alla radiazione calorifica. Quindi agisce come il vetro delle serre: intrappola il calore, che non viene più restituito allo spazio intorno alla Terra. L’aumento di temperatura globale è stato di quasi un grado negli ultimi 150 anni: una quantità di energia in più che potrebbe spiegare l’infittirsi di uragani distruttivi come Katrina.
Venti violenti
I venti di eccezionale violenza sono frequenti soprattutto nelle zone subtropicali e tropicali. Il tornado è un potente vortice che si sviluppa alla base di un cumulonembo (quelle grandi nubi torreggianti e scure che precedono i temporali) fino a lambire il terreno. Nel vortice il vento può raggiungere i 500 chilometri orari ma di solito non supera i 100.
A imprimere il moto rotatorio sono i venti di alta quota. Il vortice può percorrere distanze di centinaia di km con velocità tra i 50 e i 105 km\ora. Spesso in una stessa scarica temporalesca si formano decine di tornado: tra il 3 e il 4 aprile 1974 la tempesta Super Outbreak devastò l'Oklahoma (Stati Uniti) con 148 tornado. Memorabile per il suo potere distruttivo rimane il Tristate Tornado: il 18 marzo 1925, in appena tre ore, devastò il Missouri, l'Indiana e l'Illinois e causò la morte di 695 persone.
Abbastanza simili sono le trombe marine, colonne d'aria vorticanti che si formano sopra il mare e sopra i laghi. L'acqua contenuta nella tromba marina non è risucchiata dal mare ma deriva dalla condensazione del vapore contenuto nel vortice. Meno violente dei tornado, le trombe marine si muovono lentamente su percorsi curvilinei e si dissolvono generalmente in una quindicina di minuti.
I cicloni tropicali si formano esclusivamente sul mare e si spostano alla velocità di 25-40 chilometri all'ora, esercitando la loro forza distruttrice sui paesi costieri. Il diametro di un ciclone è normalmente di 100-200 chilometri, ma eccezionalmente può raggiungere i 700-800, come è avvenuto con l'uragano Gilbert, il più grande che sia mai stato osservato (14-17 settembre 1988, centinaia di vittime e miliardi di danni in Giamaica, Messico e Texas, venti a 320 chilometri all'ora).
Nel vortice d'aria che costituisce il ciclone si distingue l'"occhio", largo una trentina di chilometri, dove la pressione atmosferica è più bassa (mediamente intorno a 960 hPa, o ettopascal) e si ha una relativa calma di vento; il "nucleo", che circonda l'"occhio", con una pressione di 985 hPa e correnti che spirano fino a 40 metri al secondo; e infine una zona esterna, dove la pressione è intorno ai 1.000 hPa e i venti spirano sui 30 metri al secondo attenuandosi via via che si procede verso il margine del vortice. Qui si hanno anche piogge torrenziali, fino a 300-600 millimetri.
Il termine ciclone ha vari sinonimi a seconda dei luoghi: uragano si usa in America del Nord e nei Caraibi; nel Sud-est asiatico si chiama tifone; in Australia e nell'oceano Indiano si parla di willy-willy. Le zone più frequentemente colpite da cicloni (in media 21 all'anno) sono le Filippine e il Mar della Cina. Seguono il golfo del Bengala (8 all'anno), la regione dei Caraibi e gli Stati Uniti (7), il Madagascar e l'isola Mauritius (7), il Messico e le coste nord-orientali dell'Australia.
I satelliti meteorologici oggi consentono di avvistare sul nascere i cicloni tropicali e di prevederne gli spostamenti. Quando la velocità del vento al suolo supera la soglia di 119 km/ora il servizio meteo lancia l'allarme. Convenzionalmente ai cicloni si attribuisce un nome di persona, alternando nomi maschili e femminili in base alle indicazioni dell'“Organizzazione meteorologica mondiale”.
Le correnti a getto
Intorno ai poli della Terra, e anche sopra l’equatore e le zone tropicali, soffiano dei venti permanenti che possiamo considerare un po’ come dei cicloni stabilizzati e quindi “normali”. Sono le correnti a getto.
Questi giganteschi fiumi d’aria spirano in media a 150 km/ora in alta quota e sono stati scoperti casualmente dai piloti militari della Seconda guerra mondiale, i primi che abbiano potuto volare a quelle altezze. Il 24 novembre 1944 un centinaio di bombardieri americani "B-29" si avvicinavano a Tokyo volando tra gli 8.000 e i 10.000 metri. All'improvviso gli aviatori si accorsero che stavano viaggiando a 720 km orari, 150 più della massima velocità che i "B-29" erano in grado di raggiungere. Ciò fece sì che delle mille bombe sganciate appena una cinquantina finì sui bersagli. In compenso i piloti avevano potuto constatare che a una certa latitudine nord (ma il fenomeno si ripete, simmetrico, nell'emisfero australe) e a una certa quota si entra in una violenta perturbazione che accelera gli aerei in volo verso oriente e rallenta quelli diretti verso occidente.
Fu così individuato un sistema di venti simile a un colossale "fiume d'aria": la "corrente a getto". Accuratamente studiata con palloni sonda, la corrente si è rivelata larga 300-500 chilometri e spessa 3.000 metri. La sua quota varia tra i 10.000 e i 14.000 metri e la velocità è in genere compresa tra i 95 e i 185 km orari. In qualche caso però si sono misurate punte di 465 km/ora.
Modelli matematici fatti al calcolatore hanno poi chiarito che le correnti a getto sono un meccanismo essenziale per trasferire ad alta quota l'energia termica dall'equatore verso i poli. La loro alta velocità deriva dalla conservazione del momento angolare: l'aria che all'equatore ruota con la Terra, via via che si sposta verso i poli aumenta di velocità così come una pattinatrice gira su se stessa più velocemente se accosta le braccia al proprio corpo.
Le due correnti a getto maggiori, che soffiano da ovest a est, si trovano sul confine tra le cellule polari e quelle temperate. La corrente a getto dell'emisfero settentrionale sorvola il Canada, la Norvegia, la Finlandia, la Russia, la Siberia e l'Alaska, spingendosi a volte più a sud e a volte più a nord. Non viaggia però in cerchio, ma per compiere il giro della calotta terrestre percorre, a seconda dei casi, tre, quattro o cinque ondulazioni.
Seguendo il lungo percorso a serpentina, un pallone sonda immerso nella corrente a getto impiega circa due settimane per compiere una circumnavigazione completa. La serpentina comprende normalmente quattro ondulazioni, ma spesso capita che siano tre o cinque, ed eccezionalmente due o sei. Il numero di sinuosità e la loro disposizione determinano la tendenza stagionale su vaste regioni temperate. Con una corrente a getto a tre ondulazioni, ad esempio, si ha un inverno mite su tutto l'emisfero settentrionale; d'estate le sinuosità sono generalmente quattro.
Le variazioni della corrente a getto dipendono dal combinarsi di numerosi fattori. Le Montagne Rocciose sono uno dei principali ostacoli incontrati da questo fiume d'aria quando esso, occasionalmente, scende di quota. Si deve alle Montagne Rocciose se talvolta le ondulazioni passano da tre a quattro o da cinque a sei. È anche possibile che la corrente si stabilizzi per periodi più o meno lunghi, determinando tendenze alla siccità o alla piovosità più o meno persistenti.
L'importanza di conoscere il comportamento della corrente a getto è evidente: da essa dipendono in buona parte le sorti dell'agricoltura, e quindi la stessa sopravvivenza di intere popolazioni. Tenerla sotto controllo, eventualmente con interventi tecnologici, potrebbe in futuro essere determinante per il destino dell'umanità. Accanto al problema energetico, non c'è dubbio che uno dei problemi più gravi di questo secolo sarà costituito dalla scarsità di cibo e di acqua, due fattori strettamente connessi all'evoluzione del clima.
PIERO BIANUCCI