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CHI DECIDE LE MODE

Perché Monica porta i tacchi altissimi a rischio di slogatura e l’ombelico al vento, che sottozero garantisce il raffreddore? E come mai Andrea indossa i pantaloni a paracadute con il cavallo sotto al ginocchio? Per quale motivo lei ha sulla nuca una cresta colorata e lui esibisce ciuffi di capelli lucidi di lacca? Dove sta scritto che per camminare lui debba sollevare due carri armati e lei sia costretta alla tortura delle punte che le serrano i piedi in una morsa? E come si spiega che entrambi abbiano scelto lo stesso zaino scolastico con il marchio di un canale televisivo dedicato alla musica? Questione di moda. E allora che cos’è la moda? E chi la stabilisce?
Chiariamo subito un equivoco: le sfilate che un paio di volte l’anno celebrano in tv le cosiddette Case di alta moda non c’entrano nulla. Servono più per l’immagine della griffe che per mostrare i vestiti. Sono riservate a miliardarie eccentriche, tanto risultano impraticabili per costo e gusto i gioielli, le scarpe, le acconciature e gli esigui pezzetti di stoffa pubblicizzati. La moda, anzi, le mode sono altre. Lo spiega anche la Treccani, la più autorevole delle nostre enciclopedie: è appena uscito un volume che traccia la storia dei gusti e delle tendenze, dal Medioevo alla fine dell’Ottocento, quando dal costume si passa alla moda.
Il passaggio si fa coincidere con il successo a Parigi dell’inglese Charles F. Worth, intraprendente creatore di modelli per signora. È lui l’inventore delle collezioni legate alle stagioni. Mette sul mercato cartamodelli firmati, costosi ma eleganti. Ne acquista subito un paio l’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III. La seguono tutte le donne danarose e aristocratiche dell’epoca. L’alta moda comincia così. “Ora - sostiene la Treccani - non c’è più una classe dirigente che detta le regole del vestire”. Ma la moda non è morta. Sono soltanto cambiati i meccanismi che la reggono.

Imitare e distinguersi
La moda, a sentire gli psicologi, appaga due istinti contrapposti: da una parte il desiderio di imitare gli altri per integrarsi, dall’altra quella di differenziarsi. I ragazzi, più che gli adulti, tendono a fare gruppo e quindi scelgono gli stessi vestiti, gli stessi oggetti. Il branco, appunto. Così che se uno oggi vuole distinguersi, non deve far altro che evitare i modelli dilaganti. La semplicità oggi è il solo modo per farsi notare. Ma quali accorgimenti, quali tecniche di mercato usano le aziende per far diventare di moda un prodotto?
Le strategie sono diverse e si incrociano. Spesso sono frutto di annosi e ponderati piani di lavoro, altre volte nascono spontanee. Un esempio: alla fine del 1994 la “Wolverine”, che fabbrica le scarpe americane Hush Puppies, di pelle scamosciata e con la suola sottile, decide di ridurre la produzione perché il modello è ormai considerato superato. Proprio in quei giorni, un gruppo di ragazzi che frequenta i club e i bar di Manhattan, la zona più “in” di New York, decide - e nessuno saprà mai perché - di riprendere dagli armadi quelle scarpe.
In breve “il contagio” si diffonde. Dopo poche settimane le Hush Puppies sono di nuovo ai piedi dei cosiddetti opinion leaders (le persone che fanno tendenza) e vanno a ruba. Nel ’95 la produzione cresce da 30 mila a 430 mila paia; nel ’96 supera il milione e mezzo. Un’epidemia, appunto.
Come si innesca il “contagio”? Uno dei meccanismi è l’imitazione di persone che dettano lo stile. Lo chiamano trickle down, “gocciolamento verso il basso”. Se un tempo la moda si diffondeva dalle classi più agiate a quelle inferiori, oggi sono i miracolati del cinema e della televisione ad adottare uno stile, che viene imitato e diventa di massa. A questo punto i presunti vip - anche veline, calciatori, cantanti e presentatrici - ne propongono un altro. Così la moda cambia ciclicamente. Che poi questi personaggi-modello non abbiano la cultura, né il buongusto di una imperatrice dell’Ottocento è evidente: spesso il cosiddetto look è ridicolo e volgare.
La televisione influisce molto sulla scelta degli acquisti. Per esempio gli zaini, i quaderni e tutti gli accessori scolastici: ci sono linee complete ispirate ai protagonisti dei cartoni animati e poi imposti da una martellante pubblicità che condiziona i piccoli telespettatori. Chi prepara l’assortimento di prodotti scolastici chiede ai rappresentanti delle marche il numero dei passaggi pubblicitari in tv e in base a questi stabilisce la quantità delle ordinazioni.

I cacciatori di moda
C’è un altro canale attraverso il quale si diffonde la moda. Lo chiamano bubble up, “ribollire verso l’alto”. È lo stile che si afferma spontaneamente sulla strada - come abbiamo visto per le scarpe della “Wolverine” - e che gli stilisti rielaborano facendolo diventare moda per tutti.
È accaduto anche per i pantaloni ampi a vita bassa, copiati dai ragazzi neri delle metropoli americane che si vestivano con abiti di qualche taglia più grande, recuperati in famiglia o sulle bancarelle dell’usato: i pantaloni oversize erano accompagnati da scarpe da ginnastica, cappellini, e maglioni. Questo stile prima è stato adottato dai rapper, quindi rielaborato dal mondo dello skateboard, e infine ripreso e lanciato dalle aziende.
Gli stilisti cercano di intercettare le tendenze che nascono spontaneamente per capire che cosa piacerà e anche per ispirarsi. L’ispirazione giusta può arrivare da ogni parte del mondo (basti pensare al successo dell’“etnico”) e c’è sempre qualcuno pronto ad acciuffarla. Gli osservatori, che hanno il compito di trovare i nuovi look emergenti, si chiamano cool hunter, “cacciatori di novità”. Frequentano i luoghi considerati di tendenza, scrutano i comportamenti, i gusti. Poi c’è chi elabora i dati e ne trae le conseguenze. Insomma la moda non va più direttamente dal creativo al consumatore, ma arriva da diverse parti, sempre più spesso dalle periferie urbane, che sono fuori da tutti gli schemi.
C’è un terzo meccanismo: il trickle cross, la “diffusione orizzontale”. E cioè uno stile si può allargare tra gruppi socialmente omogenei, ma con diverse culture. Per esempio, i rampanti imprenditori della new economy hanno lanciato uno stile più informale sul lavoro: indossano le scarpe da ginnastica anche in ufficio. Altro caso: gli appassionati del surf e dello snowboard hanno imposto al tempo libero i loro colori accesi e l’abbigliamento ampio.
A fissare le linee guida concorrono molte fonti. A Parigi, a New York e a Tokyo si svolgono fiere “Primavisione” che con un anno e mezzo di anticipo presentano tessuti e colori del futuro, scelti dopo approfondite ricerche di mercato. Quando i grandi produttori hanno deciso e interpretato (sulla base delle informazioni che vengono dalla strada, dalla ricerca, dal marketing e dall’intuizione) il passo successivo è banale: i piccoli si limitano a copiare, rafforzando la sensazione di “moda della stagione”. Poiché dal progetto al modello passano almeno 15 mesi, possono accadere errori fatali. Si sono confezionati vestiti di foggia militare mentre scoppiava la guerra in Iraq e le piazze si riempivano di pacifisti.
La moda asseconda la voglia di nuovo. Anzi, di diverso: basta aspettare e le cose ricompaiono. Scomparse e ritorni si alternano a ciclo continuo e a ritmo sempre più veloce. Ma per funzionare davvero un prodotto deve indovinare le esigenze della società in quel momento. Pensiamo ai jeans. È parola ottocentesca, e indicava già allora certi pantaloni robusti che i marinai prediligevano e acquistavano nel porto di Genova, in francese Genes. Erano un indumento povero, per questo diventarono l’abito dei giovani, che si riconoscevano nella ribellione. Una moda anti-moda, insomma. Poi il contagio. E il paesaggio umano si è colorato di blu nelle sue infinite tonalità.
Donne e uomini, vecchi, giovani e bambini, belli e brutti, magri e obesi, tutti hanno cominciato ad indossare i jeans. Sdruciti, legnosi, slavati, sfrangiati, bucati, laminati, bullonati, corti o lunghi, aderenti o a zampa d’elefante, ruvidi o elasticizzati, ma sempre jeans. Oggi, che nel mondo se ne vendono 2 miliardi e mezzo l’anno, questi pantaloni sono stati rielaborati dagli stilisti e trasformati in capi costosi.
Non possiamo più resistere alle sirene della moda? La cantante Mina, che per tanti anni è stata lo stile in tv, confida: “Quando mi vestivano le grandi firme, mi sembrava di giocare alle signore e mi veniva da ridere.” E conclude: “Sarà un caso, ma tutte le persone più geniali e interessanti che ho incontrato nella vita, erano vestite piuttosto male”.

ROMEO REPETTO
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©AGOSTINO LONGO
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