Quando si esordisce con un album-capolavoro come “Hopes and fears”, baciato anche da vendite stratosferiche in mezzo mondo, è difficile rimanere tranquilli al momento del secondo appuntamento. E per i Keane, ovvero Tom Chaplin (voce) Tim Rice-Oxley (piano/basso/voce) e Richard Hughes (batteria/voce), mettere a punto il nuovo disco non è stata proprio una passeggiata. D’altra parte, la posta in gioco era alta: pubblico e critica li aspettavano al varco per la riconferma.
Il trio inglese, però, è riuscito a superare gli insidiosi scogli del secondo capitolo mostrando non solo che la loro vena non si è esaurita, ma mettendoci anche del coraggio. Perché il gruppo, con il nuovo “Under the iron sea”, ha realizzato un album che non è la fotocopia del precedente, come forse qualcuno si aspettava. Non mancano le melodie coinvolgenti che ne avevano caratterizzato l’esordio, ma i Keane introducono nei brani inedite sonorità, segnando un crescita decisa nel loro modo di fare musica.
L’intervista
Il nuovo disco, in alcune canzoni, presenta suoni più aggressivi se paragonato al precedente lavoro. Come mai?
Volevamo cambiare qualcosa nel nostro modo di proporre musica, far confluire quanto imparato negli ultimi tempi in tour. E ci siamo riusciti usando strumenti di qualche anno fa, come un vecchio piano elettrico e vari sintetizzatori analogici. La combinazione dei loro suoni ci ha permesso di creare un sound completamente nuovo che spazia da strutture più percussive a effetti di distorsione inconsueti per noi. Inoltre abbiamo scritto, cantato e suonato con un’intensità e una furia quasi irriconoscibili rispetto al primo album. Si è creata un’intensa e incredibile atmosfera durante le fasi di composizione e registrazione dell’album, e il suono e le canzoni risultanti riflettono proprio questo.
Cosa volete descrivere con i vostri brani?
L’idea-guida nasce dall’osservazione del mondo che, secondo noi, se la sta passando male. E questa constatazione ha creato nel nostro animo una sensazione di confusione mista a impotenza, espressa nei suoni e nei testi delle canzoni. Un disagio che abbiamo voluto individuare, come ricorda il titolo dell’album, in un luogo oscuro sotto un impenetrabile mare ferroso.
Quanto ha pesato l’affermazione del precedente lavoro nella realizzazione di questo nuovo disco?
Parecchio. Siamo stati in parte travolti dai riscontri ottenuti con “Hopes and fears” e la situazione ha rischiato di rovinare anche la nostra lunga amicizia. Sono subentrati dubbi e timori su come dare un degno seguito a quell’album. E lavorando a questo disco abbiamo cercato di confrontarci con le nostre peggiori paure, di farci uno spietato esame di coscienza, di mettere in discussione il rapporto tra di noi, con gli altri e il mondo intero. Ma siamo riusciti a superare ogni ostacolo e i brani hanno iniziato a prendere una forma sempre più convincente.
In quale modo è nato il gruppo?
Durante le vacanze scolastiche, verso la fine degli anni ’80. Siamo cresciuti insieme e frequentavamo la stessa scuola a Battle, una piccola cittadina a sud dell’Inghilterra. Nel periodo estivo non c’era mai molto da fare, se non giocare a pallone, e allora, complice la nostra comune passione per la musica, abbiamo provato a formare una band.
Quanto è stato difficile emergere?
Ci è voluto tanto tempo e un pizzico di fortuna. La nostra prima uscita, d’altronde, è stata un disastro. Era il 1999, all’epoca avevamo anche un chitarrista, e ci siamo trasferiti a Londra decisi a conquistare il mondo. Due anni dopo, tornavamo a casa con un pugno di mosche in mano, un componente in meno nel gruppo e il morale sotto ai piedi. Avevamo sprecato mesi vivacchiando con lavori senza futuro di giorno e provando alla sera in locali fatiscenti.
Cosa vi ha dato la spinta a continuare?
Ci siamo guardati negli occhi e, nonostante lo smacco, abbiamo capito che la musica era l’unica cosa che volevamo fare. Ci siamo rimboccati le maniche, rinchiusi in una modesta fattoria francese e abbiamo iniziato a comporre i primi brani senza chitarra. Il risultato ci è piaciuto: piano e tastiere avevano il sopravvento, la voce spaziava con efficacia sulle melodie e alla fine è spuntata una serie di canzoni in cui credevamo fortemente. Siamo tornati in Inghilterra decisi a farci ascoltare, e questa volta è andata bene.
Quando è avvenuta la svolta?
Nel gennaio 2003. Siamo tornati a Londra per registrare “Everybody’s changing” per un’etichetta indipendente. Il brano è finito nelle mani di un noto dj dell’emittente “Radio 1” che lo ha proclamato “singolo della settimana”. Da quel momento, hanno incominciato a trasmetterlo altre radio e piano piano è diventato un successo. E noi non ci siamo più fermati.
CLAUDIO FACCHETTI