Campi concimati con materiali tossici, autostrade costruite su strati velenosi, aree incolte trasformate in discariche abusive. Dietro c’è una criminalità organizzata che bisogna fermare.
“E dal letame nascono i fiori…”, cantava Fabrizio De Andrè. Ma era soltanto la speranza di un poeta musicista. Per avere un quadro più reale, basta sfogliare la cronaca dei giorni nostri. Dicembre 2003: “Traffico di rifiuti tossici, 21 arresti in tutta Italia”. Invece che smaltirli negli impianti autorizzati, i rifiuti servivano per produrre concimi agricoli o venivano sepolti in buche nei cantieri o nel sottofondo stradale. Si calcola che la portata di questo traffico sia stata di almeno 50 mila quintali di materiale. I carabinieri hanno chiamato “Eldorado” l’operazione, perché i traffici scoperti assicuravano guadagni milionari.
Le fonti radioattive
Gennaio 2004: da un forno ad arco voltaico (dove vengono fusi i rottami ferrosi, utilizzati poi per usi industriali: dagli scafi di navi alle pentole) delle Acciaierie Beltrame di Vicenza esce una sorgente altamente radioattiva. Com’è possibile? Tra le migliaia di tonnellate di rottame che i camion trasportano in azienda, è stato gettato furtivamente qualche bidoncino contenente Cesio 137. È “robaccia” bombardata da isotopi ionizzanti: micidiale!
I responsabili delle Acciaierie se ne sono accorti troppo tardi, ossia quando, finita la fusione, i residui dell’incenerimento hanno fatto scattare l’allarme radioattività. Ciò significa che gli operai addetti alla pulizia dei filtri delle ciminiere avevano già inalato, toccato, ingerito le finissime polveri radioattive. La fabbrica ha bloccato l’attività, sono intervenute le forze di decontaminazione. Gli operai sono stati inviati in un centro specializzato, mentre i dipendenti (circa 400) non direttamente a contatto con i forni sono stati messi in cassa integrazione.
Sorge spontanea una domanda: se questo disastro è capitato in una importante azienda europea come la Beltrame, cosa mai potrà accadere nelle piccole fonderie sparse in Italia, che non dispongono dei sofisticati sistemi di controllo e, in alcuni casi, sono addirittura “conniventi” con le organizzazioni criminali?
Lo abbiamo domandato al professor Renato Angelo Ricci, presidente dell’“Associazione Italiana Nucleare”. Le sue parole non lasciano dubbi: “La gestione dei rifiuti radioattivi in Italia è precaria e confusionale. Perché manca un organismo di controllo centralizzato”. Dove si trovano queste fonti di radioattività? “In molti ambienti. Prima di tutto negli ospedali, dove si usano materiali radioattivi, come le radiografie. Poi in agricoltura, quando si usano antiparassitari, pesticidi e fertilizzanti.
E ancora: nelle industrie metalmeccaniche, dove le sorgenti radioattive consentono di radiografare i metalli e le saldature; nelle ricerche geologiche e minerarie, quando si analizzano gli strati di terreno perforati; e negli aeroporti che si avvalgono dei raggi X per il controllo dei bagagli”.
Ma dove buttiamo questo veleno? Raccontando le proteste clamorose di Scanzano Jonico, il paese della Basilicata che non voleva diventare “la pattumiera d’Italia”, nel numero scorso di Mondo Erre dicevamo che il nostro Paese non possiede un sito dove contenere le scorie radioattive di 1ª, 2ª e 3ª categoria (rispettivamente rifiuti il cui decadimento si esaurisce in quinquenni, in secoli, in millenni di anni). Ciascuno se li dovrebbe tenere nei propri siti autorizzati. Ma non tutti li hanno. E allora?
Un affare da 6,5 milioni di euro
A rispondere ci può aiutare un’altra intervista, concessa dal magistrato Donato Ceglie, della Procura di Santa Maria Capua Vetere. Lo chiamano “lo sceriffo” per la determinazione e il coraggio con i quali combatte gli operatori mafiosi del traffico dei rifiuti. È stato lui, in Campania, a condurre l’operazione “Cassiopea”, una complessa indagine che ha smascherato un’associazione a delinquere per i reati di disastro ambientale, avvelenamento di acque, gestione di discariche abusive, truffa e abuso d’ufficio.
In sostanza, alcune aziende senza scrupoli pagano i cosiddetti “ecomafiosi” affinché scarichino i rifiuti nei luoghi più comodi per il loro sporco traffico: fiumi, laghi, mari, cave (da dove parte il “materiale” per fabbricare i mattoni delle case e l’asfalto delle strade). E ancora, terreni coltivati (che producono la frutta e la verdura che mangiamo), terreni da pascolo (beviamo anche quel latte), buche profonde dove interrare i veleni più tossici.
Per non dare nell’occhio, i delinquenti ora ricorrono ai pusher del rifiuto tossico. È la tecnica dell’indaffarato formicaio cui nessuno bada: viaggi con piccoli e anonimi furgoni carichi di fusti di modesto taglio, in modo da essere scaricati in breve tempo. Nella notte poi, i camion cisterna svuotano il loro contenuto direttamente nei tombini: un’operazione rapida, visto che le cisterne hanno il tubo già allacciato.
Una perfetta organizzazione, fatta di società di comodo, camionisti compiacenti, capannoni fantasma. E agricoltori disposti a trasformare terreni fertili in bombe ecologiche, tecnici di laboratorio, contabili abili a contraffare le bolle di trasporto. Intercettazioni telefoniche rivelano anche l’utilizzo di forni, gli stessi dove cuociono il pane quotidiano, per fondere rifiuti di gomma e plastica.
Il giro d’affari di questo sporco traffico ammonterebbe a circa 6,5 milioni di euro. Aggiunge il magistrato Ceglie: “In Italia si producono 97 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, tossici e radioattivi; 30 milioni di tonnellate vengono smaltite illegalmente. Noi possiamo condurre indagini, peraltro molto complesse, rinviare a giudizio, emettere sentenze di condanna. Ma non basta: bisognerebbe poter seguire il percorso dall’origine allo smaltimento. Le leggi ci sono, ma è difficile farle rispettare. Il nostro Paese è “spalmato” di sostanze nocive: distruggono l’uomo e l’ambiente. La diossina dilaga, entra nella catena alimentare. Non per nulla i casi di cancro sono in aumento”.
Senza fare del terrorismo ecologico, i rischi che corriamo sono davvero tanti. Lo scenario è spaventoso e in gran parte ancora da esplorare. Dal rapporto formulato da una commissione parlamentare d’inchiesta, emerge che alcuni militari italiani, volontari in Somalia, potrebbero essere stati contaminati da rifiuti tossici. Se le voci fossero fondate, sarebbe il primo fatto accertato di un grande business internazionale. Sullo sfondo di questo traffico, potrebbero essersi consumati gli omicidi dei due giornalisti italiani Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
NADIA REDOGLIA