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NEGRITA – COME VOLARE PIÙ IN ALTO

Mai come in questi anni, l’etichetta “rock” è stata appiccicata sovente a sproposito agli artisti più vari, salvo poi scoprire che costoro erano dediti più al pop. Niente di male, beninteso, ma non bastano due accordi di chitarra più aggressivi in un brano e parlare di spirito alternativo nelle interviste per iscriversi nelle liste degli artisti che “fanno” rock, soprattutto in Italia.
Se c’è qualcuno, in questo senso, che non ha mai barato al gioco sono i Negrita, quintetto di Arezzo (ora in quattro dopo l’abbandono amichevole del batterista), in azione dal 1994. Fin dal nome, ispirato a una canzone dei Rolling Stones, il gruppo ha coniugato il verbo del rock con coerenza, facendolo interagire con melodie e tendenze sonore senza mai svendersi. È stato ripagato, album dopo album, da una crescente popolarità, che oggi si rinnova con la pubblicazione del nuovo disco, “L’uomo sogna di volare”, riassunto di un viaggio che ha portato i Negrita in giro per il SudAmerica e la Spagna, donando al loro rock atmosfere calde come quei climi.

L’INTERVISTA

D. Questo album quanto è “figlio” del vostro girovagare per il mondo?
R. Certamente riassume bene le esperienze vissute durante i nostri ultimi viaggi, compiuti anche per cercare nuovi spunti da inserire nelle canzoni. La prima fase si è svolta in SudAmerica ed è nata con lo spirito dell’esploratore: un piccolo tour senza scopi promozionali, per il piacere di confrontarsi con realtà diverse dalla nostra, artistiche e umane. Siamo partiti con valigie quasi vuote per riempirle con le emozioni e le suggestioni di quei Paesi: Cile, Argentina, Uruguay e, soprattutto, Brasile. La seconda fase ci ha visti tornare in Italia, per sviluppare alcune canzoni, per poi fare rotta verso la Spagna, a completare il lavoro.

D. Cosa vi ha lasciato questo viaggio?
R. Indubbiamente emozioni forti, specchio del coinvolgimento avuto con artisti, persone comuni e fatti accaduti durante i nostri spostamenti. Come l’incontro con il percussionista Carlinhos Brown nella favela di Candeal, a Salvador. Qui i bambini vengono strappati dalla strada grazie a questo musicista che ha aperto una scuola e insegna loro la dignità del lavoro attraverso le sette note. Oppure osservando la difficile vita di tanti argentini a Buenos Aires, vittime di una crisi che stenta ad allontanarsi, eppure ancora orgogliosi.

D. Il risultato che traspare dal disco sembra voler indicare il recupero dei valori semplici della vita, ormai quasi persi di vista. È così?
R. La nostra società tende ormai ad appiattire qualsiasi cosa. Si corre in modo forsennato verso un benessere sempre più eccessivo e sprecone, che a ben vedere non ci rende poi così felici come promette. Abbiamo passato una settimana in una favelas dove il massimo del divertimento dei ragazzi era percuotere un tamburo, ma avevano sulle labbra sempre il sorriso. Sono situazioni che ti fanno riflettere, in cui comprendi quanto sei fortunato e non te ne rendi conto. Allora è il caso di recuperare il valore delle cose semplici.

D. Argomenti questi che ritornano anche nel brano “Il branco”.
R. Cerchiamo di prendere le distanze da una società che tende a renderci tutti uguali, imponendoci dei precisi modelli. Ci induce ad annullare la nostra personalità e a rifugiarci nel branco. Noi pensiamo invece che l’individuo abbia un suo valore e debba esprimersi nella massima libertà e nel rispetto altrui.

D. Come siete riusciti a far incontrare le sonorità latine con il vostro modo di eseguire il rock?
R. È scaturito tutto in maniera naturale, sommando le esperienze fatte in giro. Per esempio, canzoni come “Sale” e “Greta” sono state composte tempo fa, prima del nostro viaggio. Quando le abbiamo eseguite, ci siamo accorti che formavano un ponte ideale tra il nostro passato e il presente: su una forte base rock-blues si innescavano perfettamente le percussioni brasiliane. Siamo così riusciti a non snaturare la nostra identità pur realizzando un lavoro ricco di novità.

D. Eravate stanchi delle sonorità che passano dalle nostre parti?
R. In effetti, la musica occidentale è da tempo troppo simile a se stessa. Il SudAmerica è stato una rivelazione, soprattutto nelle realtà locali, quelle meno pubblicizzate. Abbiamo rizzato le antenne e captato tutto ciò che potevamo, per poi riversarlo in qualche modo nelle canzoni. È stato bello ritrovare un entusiasmo nel fare musica che si era un po’ smarrito.

CLAUDIO FACCHETTI
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©AGOSTINO LONGO
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