«Dopo San Siro il rugby italiano non sarà più lo stesso». Il giudizio è di Sergio Parisse, punto di forza della squadra azzurra che proprio nello stadio milanese, giusto un anno fa, ha sfiorato la vittoria contro i leggendari All Blacks. Quella partita, con il suo carico di emozioni e di entusiasmi da record, ha segnato un punto di non ritorno facendo definitivamente meta nel cuore degli italiani: ottantamila spettatori a San Siro (mai visti da anni neppure in una partita di calcio!) e due milioni e mezzo davanti alla tivù certificano che quella per il rugby non è una passione effimera.
«In quello stadio – continua Parisse - è successo qualcosa di importante. Abbiamo perso dai più forti giocatori del mondo ma ci siamo sentiti amati da un pubblico che ci ha applaudito dall’inizio alla fine. Sulle gradinate c’erano tantissimi bambini che a fine partita hanno chiesto alle mamme di giocare a rugby. Da allora le iscrizioni ai corsi si sono moltiplicate: proprio questa è stata la nostra vittoria più bella».
Una vittoria testimoniata anche dal successo che ha accompagnato in libreria l’uscita del libro Ama il tuo nemico di John Carlin, vincitore dell’ultimo Premio Bancarella Sport, che ha ispirato anche la trasposizione cinematografica fatta da Clint Eastwood con Invictus.
Lezioni di fair play
A incantare il pubblico, e a coinvolgerlo in una atmosfera che nessun stadio calcistico è in grado di regalare, è il profondo senso di civiltà che il rugby emana. Sugli spalti nessuno tifa contro gli avversari, e in campo la correttezza e il rispetto reciproco sono una regola che non ha bisogno di essere scritta. «Su ottantamila persone – commenta Mauro Bergamasco, un altro azzurro doc - ce ne saranno cinquantamila che non capiscono nulla di mischie e di placcaggi ma di una cosa sono certo: chi vede per la prima volta una partita di rugby non saprà resistere alla tentazione di vederne una seconda».
Parole profetiche, quelle di Parisse e Bergamasco. Da quel memorabile Italia-All Blacks la crescita del rugby azzurro, sia in termini di popolarità che di valori tecnici, è stata continua. Nel primo caso va rilevato il boom di
partecipazione dei ragazzi alle iniziative promozionali attivate nelle scuole.
Il rugby è stato indicato infatti come lo sport che meglio di tutti è in grado di educare alla legalità e al fair play sfruttando l’animosità, il senso di partecipazione e la voglia di “fare squadra” che la palla ovale ispira. In cinque incontri i ragazzi, coadiuvati da insegnanti e allenatori, imparano a giocare al touch rugby (dove il placcaggio è sostituito dal semplice tocco dell’avversario). Sono previste anche lezioni teoriche in classe con uno psicologo infantile e un docente di diritto sportivo.
Nel secondo caso è arrivata la gratificazione che da anni le nostre squadre sognavano: l’ammissione alla “Magners Celtic League”, una svolta storica che consente a Benetton Treviso e agli Aironi di Viadana e Parma di misurarsi in campionato con l’elite del rugby gallese, irlandese e scozzese.
La sfida è impegnativa, anche perché bisognerà adattarsi a ritmi ben più elevati. All’inizio sono arrivate infatti sconfitte cocenti, ma lungo il cammino i progressi sono apparsi sempre più evidenti. E in ogni caso, per diventare veramente competitivo a livello internazionale, il rugby italiano ha un’unica carta da giocare: quella che lo porterà ad affrontare avversari sempre più forti.
Soltanto alcuni anni fa la sola idea di affrontare gli All Blacks neozelandesi o gli Springbox sudafricani appariva non soltanto velleitaria ma addirittura improponibile; oggi gli azzurri, dopo l’esperienza maturata nel prestigioso torneo Sei Nazioni, sono invece in grado di misurarsi senza provare imbarazzo con le Nazionali più forti del mondo.
Più veloci e offensivi
La scelta che ha portato in “Magners Celtic League” la Benetton e gli Aironi, escludendo invece una forza emergente come Roma, non è stata facile. Ci troviamo tuttavia in presenza delle due scuole rugbystiche italiane più evolute: a Treviso la cultura della palla ovale è quasi una religione, c’è una tradizione antica da rispettare; la piccola Viadana, cittadina del Mantovano che non supera i diecimila abitanti, ha creato invece una sorta di cooperativa coinvolgendo ben sette club: Gran Parma, Rugby Parma, Coloro, Noceto, Reggio Emilia, Mantova, Modena e Monza.
È nata così la “franchigia” degli Aironi, con una coda di entusiasmo indescrivibile testimoniata dal tutto esaurito quando squadroni come Glasgow Warriors, Leinster, Ospreys, Munster e Cardiff Blues giocano allo “Zaffanella” di Viadana.
Quali sono, in termini pratici, i vantaggi derivati dalla partecipazione alla “Magners Celtic League”? La presenza di sponsor importanti la dice lunga sull’interesse che il campionato sta muovendo, ma i riflessi positivi si avranno anche sul gioco della nostra Nazionale.
«Le nuove interpretazioni – dice Nick Mallett, il commissario tecnico azzurro - vanno ormai in un’unica direzione: la velocità di esecuzione. Cambiano le strategie, cambia il modo di allenarsi, siamo di fronte a una sorta di rivoluzione copernicana del rugby che il nostro campionato non sarebbe riuscito in alcun modo ad affrontare. I piloni e le seconde linee devono muoversi con la medesima velocità delle terze linee, diminuisce la ricerca dei punti di contatto, le iniziative individuali devono lasciare il posto all’organizzazione collettiva».
Un esempio? Lo spiega ancora Mallett. «Il tempo effettivo di gioco dell’ultimo Super 10, il campionato italiano che raggruppa le squadre di vertice, è stato di 28 minuti a partita, quello del Sei Nazioni di 43. In “Magners Celtic League” e nell’attività internazionale in genere si sta andando addirittura oltre. Ecco dunque che la squadra azzurra dovrà cambiare mentalità diventando più veloce e più offensiva. Dovremo cominciare a educare anche i più piccoli a queste nuove esigenze: chiederò che nelle Accademie e nelle scuole si disputino i tornei a sette giocatori, in modo da velocizzare subito l’azione».
Il vero nodo, per Benetton e Aironi, sarà l’intensità. Franco Smith, il coach della squadra trevigiana, non si è fatto cogliere impreparato. «Abbiamo lavorato un anno intero –dice - per prepararci: allenamenti brevi ma con i venti minuti finali senza respiro. In partita, dopo aver subito una meta, in un attimo trasmettiamo la palla a metà campo per partire subito, trasformando in raccattapalle anche i giocatori della panchina».
Non sono soltanto le esperienze in campo a unire i giocatori. Prima della partita in molti si inginocchiano vicino ai pali delle porte per pregare. «Ho iniziato io – racconta Smith - poi negli anni si sono uniti anche altri giocatori. Io sono molto religioso, credo che tutte le cose che ho avuto nella vita siano venute da Dio. Il rugby è uno sport da combattimento e c’è bisogno di momenti che creino un sentimento familiare. Nel nostro gruppo ci sono sudafricani, argentini, neozelandesi, figiani. Nella preghiera ci sentiamo più uniti».
©Mondo Erre - Adalberto Scemma