Con il nuovo album Life l’artista portoricano sfuma i ritmi latin-pop della “vida loca” che gli hanno regalato tanta popolarità. E apre ai suoni del mondo e all’impegno.
Se c’è un artista che può dire di aver passato una vita sotto il segno delle sette note, questo è proprio Ricky Martin. A dodici anni era già sopra un palco a cantare e ballare con i Menudo, popolare gruppo latino-americano. Un’esperienza positiva, durata sei anni, che gli è servita per prepararsi a fare il grande balzo personale nel mondo dello spettacolo.
L’artista portoricano accetta di interpretare alcuni ruoli in fiction tv, inizialmente in Messico e in seguito in America, per poi finire nel musical “I miserabili”, adattamento del romanzo di Victor Hugo. Ricky, però, ha sempre in mente le canzoni e finalmente nel 1977 approda al disco da solista. S’intitola “A medio vivir”, che spopola nel mercato sudamericano e lo mette in evidenza negli Stati Uniti.
Prende il via così una carriera sfolgorante, divisa tra album in lingua spagnola e inglese, in cui frulla calienti ritmi latini con i gusti del pop. Vende oltre 20 milioni di dischi, acchiappa premi a ogni latitudine, riempie stadi quando si esibisce.
Adesso ha pubblicato un nuovo album, “Life”, dove Ricky si rimette in gioco. Meno propenso a seguire la filosofia de “La vida loca” (La vita pazza), come titolava un suo hit, l’artista sterza in parte verso un suono diverso e più maturo, come oggi si sente lui stesso. Prevale nei brani una sorta di “world music” dai colori etnici, ma trovano spazio anche ballate melodiche e ritmi hip hop, con qualche puntatina al passato.
L’INTERVISTA
D. Qualcuno rimarrà spiazzato nell’ascoltare alcuni brani del tuo album. Come mai questa virata?R. È frutto dei viaggi e degli incontri che ho fatto in questi tre anni in cui mi sono tenuto lontano dai riflettori. Ho visitato parecchi Paesi – Brasile, India, Egitto, Thailandia – e annotato spunti e sensazioni, scambiando esperienze e opinioni con altri musicisti. Tutto questo è finito nel disco, consapevole di addentrarmi su un terreno rischioso. Ho sperimentato modi di eseguire musica che non avevo mai fatto prima, senza seguire alcuna regola. Eppure nelle canzoni si sente un’incredibile spontaneità ed entusiasmo. Mi è sembrato quasi di ricominciare da zero.
D. Perché lo hai intitolato “Life”, “Vita”?R. Lo spunto dell’intero progetto è nato da una mia profonda convinzione: la vita non ha una sola dimensione. Tutte le realtà sono tra loro connesse in qualche modo. E l’ho compreso durante i miei viaggi, confrontandomi con persone e situazioni diverse. Ho così messo a fuoco cose molto semplici che possono però essere fondamentali per l’esistenza.
D. Che cosa racconti allora in queste canzoni?R. Vicende che non “parlano” solo delle mie esperienze personali, ma descrivono anche i vari scenari di cui sono stato testimone. Ho avuto contatti con differenti culture e religioni, collaborato con persone da cui ho appreso cose nuove. È stato, in parte, un periodo formativo, e qualcosa dentro di me è cambiato. Musica e parole oggi sono più mature di quelle di ieri, anche se non rinnego nulla del passato. Alla fine, ho lasciato che la vita prendesse spontaneamente forma nell’album.
D. Come definiresti il disco?R. È un lavoro globale, dove ho cercato di unire i diversi stili di vita che ho incontrato nel mondo attraverso le canzoni. Per questo nel disco si passa da sonorità mediorientali al rock, dall’hip hop al reggae. È un modo di rendere il linguaggio universale della musica condivisibile a tutti, a qualsiasi latitudine.
D. Hai impiegato tre anni per inciderlo. Come mai?R. Ho trascorso 12 anni della mia vita tenendo il piede sull’acceleratore e prima di sbandare, ho preferito tirare il freno a mano. Così mi sono preso una pausa, una lunga pausa, per ritrovare il tempo perduto e il piacere di stare con la gente, di fare le cose senza fretta. Qualcuno ha detto che ero depresso, ma non era vero. Avevo semplicemente compreso che non potevo continuare con quel ritmo: correvo il rischio di fare una brutta fine, come tanti miei colleghi che per stare sempre al top dovevano trovare le forze nelle medicine o negli stupefacenti.
D. Durante questo periodo, hai dato vita a una Fondazione molto attiva che si occupa di bambini e ragazzi in difficoltà. Ne vuoi parlare?R. Dopo il traffico di droga e di armi, lo sfruttamento sessuale dei minori è la terza industria illegale nel mondo. Muove oltre 20 milioni di dollari all’anno e distrugge la vita di questi ragazzi. Quando parlo con uno di loro, sento una rabbia tremenda salirmi dentro. Per questo, ho deciso che dovevo fare qualcosa, ed è nata la Fondazione. Nel mio sito si trovano le informazioni per sostenerla, i risultati che si ottengono, le testimonianze. È un impegno che seguo in prima persona, non solo finanziariamente: incontro i politici per portare la loro attenzione sul problema e ogni ragazzino che riesco a strappare a questo turpe mercato è una vittoria.
CLAUDIO FACCHETTI