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DO YOU SPEAK GLOBISH?

La lingua più parlata al mondo è il mandarino, usato da 1,75 miliardi di cinesi. Al secondo posto, l’inglese; al terzo, l’hindi. Ma è una classifica destinata a durare poco. Oggi ad esprimersi nella lingua di Shakespeare sono 514 milioni e solo una piccola parte è di madre lingua. Ma tra dieci anni ci saranno altri 2 miliardi di persone che parleranno un loro inglese imbastardito, sia esso lo “spanglish” dei latino- americani o l’”hinglish” degli immigrati indiani.
Anche noi italiani parliamo molto inglese, magari senza conoscerlo. Una semplice ricerca su Wikipedia, l’enciclopedia gestita in Rete, elenca 142 voci nella categoria “forestierismi in italiano”: dalla A di abstract alla Y di yachtsman. In mezzo ci sono vocaboli facilmente traducibili, ma che sembrano più efficaci pronunciati così. Trend ha lo stesso significato di “tendenza”, flop si può dire “fiasco” e shopping sono gli acquisti.
Ma ormai l’inglese domina. Una tendenza, del resto, che esiste in tutto il mondo. Da qui l’idea di un ex dirigente dell’Ibm in pensione, il francese Jean Paul Nerrière: perché non codificare questo “inglese non inglese” in un sistema universale di comunicazione accessibile a tutti?
Così è nato il Globish, o “global english”. È un linguaggio elementare formato da non più di 1.500 parole. Sembra impossibile, se pensate che l’Oxford Dictionary ha 615 mila vocaboli. Il segreto è quello di usare sempre gli stessi termini, a costo di lunghi giri di parole.
Qualche esempio: nipote, in Globish, si traduce con son of my brother/sister, e cioè “figlio di mio fratello /sorella”; la cucina diventa room in which you cook your food, “la stanza nella quale cucini il cibo”; chiacchierare non è più chat, ma speak casually to each other e cioè “parlare l’un l’altro con disinvoltura”. Ma dove va a finire quella capacità di sintesi che, a sentire i linguisti, ha fatto la fortuna dell’inglese?
Per fortuna il Globish conserva i cosiddetti “termini universali”. Per esempio, la pizza resta pizza, con buona pace del presidente iraniano Ahmadinejad, che vorrebbe ribattezzarla “pane elastico”. Così come taxi, fax, smog, box, team, cd, email, free, press, big e molti altri vocaboli che hanno un suono secco e sono difficilmente sostituibili. Elicottero? No, meglio tradurre in “ala rotante”.
Nerrière ammette che il Globish è molto lontano dalla lingua di Virginia Wolfe. Lo considera un “semplice strumento di lavoro, dagli scopi limitati ma efficiente e facile”. Per impararlo, osserva con orgoglio, bastano meno di 200 ore di studio. E ricorda la sua esperienza personale: “Quando lavoravo all’Ibm mi accorsi che i miei colleghi coreani o russi si capivano meglio fra di loro che con chi parlava un inglese madrelingua”. Da lì gli venne l’idea di comporre una grammatica per questo inglese approssimativo, pubblicata in Francia e tradotta qualche mese fa in Italia nel libro Parlate Globish (Agra Editore).

La più cliccata
Il Globish, utile ed economico come i segnali Morse, si basa sulle parole più usate. E qui è interessante una ricerca dell’Oxford Dictionary, che ha elencato i vocaboli inglesi più ricorrenti. Time, “tempo”, la vera ossessione della nostra epoca, è la parola più frequente. I suoi subordinati (hour, day e year, “ora”, “giorno” e “anno”) sono nelle prime posizioni, a confermare il tormento assillante dei minuti che scorrono.
Al secondo posto, person, “persona”, parola astratta che piace molto. Come way, che è “strada”, ma anche “modo” e molte altre cose (18 significati in inglese). Al sesto posto, thing, “cosa”: dentro ci puoi mettere di tutto. Nomi astratti e vaghi sono i preferiti. Al settimo posto, man, “uomo”, mentre woman, “donna”, è soltanto al quattordicesimo. Altro che “quote rosa”!
È un elenco maschilista e marziale: war, “guerra”, si piazza al 49esimo posto; peace, “pace”, non compare neppure tra le prime cento. C’è problem, però manca la solution; piace molto job “lavoro” (16), mentre gioco e riposo sembrano impronunciabili. Sono quasi tutte parole brevi, monosillabiche. Forse parliamo corto perché non abbiamo tempo.
E le parole più usate dagli italiani? Google ha stilato una mappa basata sulle statistiche delle domande fatte al motore di ricerca Usa. Ogni parola ha una sua classifica, secondo le ricerche di chi naviga su Internet. Un esperimento che si chiama Google Trends e funziona così: nella finestra di ricerca si inseriscono sino a un massimo di 5 parole da cercare; il risultato appare in pochi secondi e comprende un grafico con le fluttuazioni storiche del termine, le comparazioni in casi plurimi, tre sezioni sottostanti in cui sono elencati i risultati per città, nazione e lingua.
I risultati non corrispondono necessariamente a indici di gradimento, ma sono un piccolo termometro per osservare gli umori del Paese, quello che più lo incuriosisce. Lavoro, scuola, sanità, calcio e vacanze sono le ossessioni d’Italia. Siamo legati alle realtà locali, affezionati al campanile. Cerchiamo poco le parole “governo” e “Parlamento”, digitiamo molto più spesso “Comune” e “assessore” che “ministro” o “deputato”.
Leggere i dati delle parole più richieste su Google è come addentrarsi in un dedalo senza fine, con una sorpresa ad ogni angolo. Amore è un termine richiesto pochissimo a Verona, la città di Romeo e Giulietta; Prodi è più richiesto a Pomezia che a Bologna, dove risiede; pizza è cliccata molto all’estero e quasi per nulla in Italia.
Si potrebbe dire che Google è una macchina per evocare desideri e si cerca quello che non si ha. Ma poi scopri che a Torino vogliono sapere tutto sul “nuoto”, Firenze è in testa per il “vino”, Napoli per gli “svaghi” e Cagliari per i “mutui”. A Roma c’è un’impennata di richieste su Francesco Totti. Ma provate a cercare Roma su Google: troverete circa 260 milioni di risposte, che non distinguono fra la mappa della Città Eterna e il sito dell’omonima squadra di calcio, fra gli alberghi della capitale e una catena di ristoranti che un signor Tony Roma gestisce in alcune città degli Stati Uniti. Il garante della privacy ha infatti dovuto inventare la categoria dei “dati sensibili” per distinguere le nozioni pertinenti e cruciali dai covoni di gramigna informativa che ingombra i nostri orizzonti.

NICOLA AUTALDI
Nilus
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©AGOSTINO LONGO
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