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MAMME OLTRE IL MURO

Mondo Erre le ha raggiunte e pubblicherà in esclusiva le singole interviste in tre successive puntate. 1a puntata
Dal nostro inviato. Il muro, testardamente voluto dal premier israeliano Sharon anche contro il parere di molti osservatori internazionali, avanza con la colonna sonora dei giganteschi martelli pneumatici. Ha raggiunto in questi giorni la straordinaria zona di confine tra Gerusalemme, “la città santa” e Betlemme, “la città del pane”. L’attuale ed estenuante check point, che costringe tutti a lunghe attese e respinge la maggioranza degli arabi, tra breve diventerà un insuperabile spiraglio di passaggio per pochi privilegiati. Continua l’opera di accerchiamento delle popolazioni palestinesi in spazi sempre più ristretti e controllati da torrette militari, periscopi cilindrici spuntati come funghi. “Sono misure di sicurezza e di difesa”, dicono gli alti comandi israeliani. “Sono atti di aggressione che nessuno al mondo ha il coraggio di fermare” replicano i palestinesi. Sicurezza da una parte e aggressione dall’altra si consumano nel silenzio generale del mondo. Nessuno crede che il muro risolverà i gravi problemi di “vicinato” tra ebrei e arabi. Per adesso sta chiudendo in trappola migliaia di persone, bloccandone la circolazione, il lavoro e il diritto alla vita piena. Intanto, a Betlemme continua a circolare il pane, prodotto nel forno dei Salesiani e distribuito tutte le mattine a circa quattrocento famiglie ai limiti della sopravvivenza. Il suo profumo non riesce, però, a sostituire anche quello della libertà, un dono che si sta assottigliando sempre di più per i suoi quarantamila abitanti. Molti di essi stanno pensando di emigrare come hanno già fatto in tanti. Per capire meglio la situazione, abbiamo incontrato tre mamme, tre donne sulle cui spalle pesano i problemi quotidiani e i drammi di una situazione ingarbugliata e senza speranza. “Non è facile parlare di pace” Hala Issa è una dolce trentenne musulmana, dagli occhi profondi, a volte venati di malinconia. Ha accettato volentieri di raccontarsi come mamma e come palestinese che sta vivendo da tre anni una situazione drammatica a Betlemme. Ha tre figli di 10, 7 e 4 anni. E tanti altri bambini, dalla prima elementare alla seconda media a cui dedica la sua giornata come insegnante in una scuola privata. E sono proprio i più piccoli, al centro delle sue preoccupazioni quotidiane. Domanda: Che cosa capiscono i suoi figli e alunni di ciò che sta avvenendo intorno a loro?
Risposta: All’inizio dell’intifada, nel 2001, erano smarriti. Come noi adulti, non riuscivano a rendersi conto di quanto stava succedendo. La situazione si è poi complicata. Quando hanno visto i loro compagni cadere sotto i proiettili dei soldati, hanno cominciato a chiedersi il perché di tutto questo e come mai ci fosse il coprifuoco. Non è facile spiegare, soprattutto a chi ha perso una persona cara, che cos’è la guerra. Cerco di trovare le parole più rassicuranti possibili, con l’aiuto dei genitori. D. Quando incontrano un ebreo a che cosa pensano?
R. Gli unici ebrei che conoscono sono i soldati e quelli che vivono negli insediamenti. Due categorie “nemiche”, perciò. D. Nonostante la situazione si sia fatta ogni giorno più drammatica, riesce a parlare loro di pace?
R. Più che da me dipende dalle famiglie e dalla situazione in cui vivono. Se, ad esempio, hanno perso uno zio, il papà o il fratello come possono avere la pace dentro? Quando c’è di mezzo un dramma così grande, il discorso della pace diventa praticamente impossibile. Prende il sopravvento anche sulla scuola. Una volta un ragazzo non è venuto in classe per alcuni giorni perché era stato ucciso un suo zio. Da allora è distratto, violento con i suoi stessi compagni. Per recuperare questi ragazzi dovremmo imitare gli ebrei che li fanno assistere da uno psicologo. Ma noi, per ragioni economiche, non possiamo permettercelo. D. In famiglia ha vissuto qualche situazione critica?
R. Un giorno i soldati sono entrati in casa mia per prendere alcuni giovani ricercati dall’autorità israeliana che si erano nascosti da noi perché inseguiti. Una volta stanati, i militari hanno portato via anche mio fratello. E poi, sotto gli occhi dei miei figli terrorizzati, hanno cominciato a distruggerci la casa. Come si fa a parlare di pace dopo questi fatti? D. Questa è anche la guerra dei bambini. Ne sono morti molti, da una parte e dall’altra...
R. È vero. Nelle guerre ci rimettono anche loro. Io conservo il conto dei nostri morti: in questi ultimi tre anni sono stati uccisi 648 giovani palestinesi, 255 di loro avevano meno di 14 anni. L’unica cosa che possiamo fare è aiutarli a uscire dalla spirale di violenza cercando di far vedere le cose positive nel mondo. Dalla televisione ricevono, però, un solo insegnamento: che ci troviamo in queste condizioni solo perché manca la giustizia. Allora il nostro discorso non è più vincente. D. Perché i ragazzi continuano a tirare le pietre, quando sanno che potrebbero essere colpiti?
R. Lo fanno normalmente quando tornano da scuola e vedono una jeep che sta girando all’interno del territorio palestinese. Allora lanciano sassi: è l’unica arma che hanno. Non trovo giusto però che i soldati rispondano con le pallottole. Che cosa può fare una pietra davanti a un carro armato o a un fucile? D. Come mai i genitori non li bloccano per tempo?
R. Il più delle volte lo fanno a loro insaputa. Non sanno nulla che il figlio è andato a tirare pietre e se lo vedono riportare a casa senza vita. Un possibile gemellaggio D. Vorrei sottoporle adesso un problema delicato: quello dei kamikaze. Non è una tecnica brutale e inutile?
R. La decisione di fare il kamikaze può maturare per una convinzione politica, per una motivazione religiosa oppure per disperazione. Ed ognuna di esse dipende molto da come si viene educati in famiglia e dall’ambiente. Però nessuno può essere contento che un figlio, allevato fino a una certa età, venga portato via per sempre in un batter d’occhio. D. Però i proclami dei futuri kamikaze e le scene di esultanza che accompagnano il loro gesto fanno pensare diversamente… R. Sono il contorno di una scelta che va rispettata perché è fatta, il più delle volte come dicevo, per disperazione e rabbia. Il kamikaze non pensa alle conseguenze. Ha una cosa sola in testa: vendicare il sangue di un altro. L’ultima donna si è fatta esplodere per ricambiare la morte del fratello. Purtroppo questo è un ciclo che ritorna e non finisce finché qualcuno non decida di fare sul serio dei passi concreti verso la pace. D. Ha qualche speranza per il futuro?
R. Solo se il problema della coesistenza si risolve in modo giusto. Dopo la precedente intifada, nel periodo compreso tra il 1987-1993, ci hanno dato l’anestesia per stare buoni… Ma è durata molto poco perché mancava l’elemento fondamentale: dare a ciascuno ciò che spetta, secondo giustizia. Altrimenti questa battaglia non finirà. I bambini, ad esempio, devono riprendere il contatto con la terra. Oggi quando parlo loro del mare o del lago, le mie lezioni rimangono sospese nel vuoto, perché il blocco proibisce loro di uscire e andare a vederli. D. E intanto il muro avanza attorno a voi…
R. Per noi è la fine. Alcuni dei miei ragazzi per colpa del muro hanno perso la loro terra, e qualcuno perfino la casa. Se uno perde la terra e la casa perde anche il futuro. Oggi la disoccupazione a Betlemme è al 70%, quando saremo completamente chiusi da questo anello di cemento arriverà al 100%. La scomparsa del turismo ha costretto le donne a riprendere a fare dei piccoli lavori a mano, visto che l’uomo non può più lavorare. D. Avete anche perso ogni contatto con eventuali amici ebrei…
R. Prima dell’intifada c’erano molti ebrei che venivano qui a Betlemme. Ma adesso le cose sono cambiate: c’è poca fiducia e sicurezza. Se viene a visitarmi una famiglia ebrea alcuni possono pensare che sono una loro collaboratrice e questo mi causerebbe dei danni seri… D. Come giudica il comportamento dei vostri leader?
R. Gli attuali capi hanno una mentalità vecchia. Hanno fatto iniziare questa lotta che è un ciclo senza fine di sangue. E non finirà finché non inventano qualcosa di nuovo. Siamo nelle mani dei potenti che governano il mondo. D. Riesce a pregare in questi momenti?
R. La preghiera è l’unica soluzione. In questa situazione abbiamo imparato a pregare di più… D. Ha mai pensato di lasciare il Paese?
R. No, non riesco, perché amo questa terra nonostante le difficoltà. Se i miei figli, però, vogliono andare all’estero e poi ritornare, glielo concederei. D. Come mamma e insegnante: ha un consiglio per i nostri ragazzi?
R. Imparino a conoscere la verità, non si fidino dei mass media e del sentito dire. Se venissero qui certamente capirebbero tante cose e sarete sempre benvenuti nella vostra Terra Santa. VALERIO BOCCI
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©AGOSTINO LONGO
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