Il respiro della Terra
Non c’è vita senza vento
Il primo sbuffo infuocato. Da dove viene e come si forma il vento. Le autostrade invisibili del cielo.
Il primo respiro della Terra, cinque miliardi d’anni fa, fu uno sbuffo infuocato. Salì dal suo cuore incandescente, sconvolto da esplosioni apocalittiche.
Nell’universo sovrastante si riversarono tonnellate di gas e minerali. I vapori rimasero catturati nell’atmosfera, un invisibile polmone che avrebbe rifornito d’aria il mondo e funzionato come una termocoperta.
Sulla testa della neonata Terra si posizionò una “bolla d’aria”, formata da gas diversi: anidride, metano, azoto, ossigeno.
Questi ultimi due erano particolarmente infiammabili. Eppure, contro ogni legge della chimica, non sono mai esplosi, per il loro buon “rapporto” sempre rispettato: 78% di azoto e 21 di ossigeno. Se questa proporzione dovesse variare anche di poco, il nostro pianeta finirebbe arrosto, per autocombustione.
Tre miliardi d’anni più tardi si presentò finalmente l’uomo. Fu accolto nell’incubatrice dell’atmosfera, mantenuta a una temperatura accettabile dai suoi gas, prima tra tutti l’anidride carbonica. L’aria, nel frattempo, era diventata respirabile per merito delle alghe verdazzurre (dette primeve).
Erano batteri che assorbivano l’anidride carbonica e la trasformavano in ossigeno, indispensabile all’uomo come l’acqua. Per i pesci. L’ossigeno a sua volta, bombardato dai raggi ultravioletti, venne trasformato in ozono. Esso andò a fissarsi a un’altezza tra i 15 e i 50 km, nella stratosfera formando uno scudo protettivo contro le radiazioni solari. Questo schermo protettivo dei raggi ultravioletti ha retto bene, per millenni, fin quando i moderni fluorocarburi lo hanno perforato pericolosamente.
Al di sotto, nella troposfera (la zona più bassa dell’atmosfera) fissarono il domicilio le famiglie delle nuvole, dei temporali, della pioggia… E soprattutto quella dell’aria. Il 75% del prezioso “carburante” della macchina umana è concentrato qui. Al di sopra di questa zona, lo strato gassoso si esaurisce e dai 100 km in su si estendono mondi senza vento e senza vita.
La composizione a strati dell’atmosfera è una scoperta recente. Gli astronauti se ne accorsero soltanto nel secolo scorso con l’aiuto dei palloni aerostatici. Prima tutti pensavano che essa fosse un velo uniforme di gas, dalla superficie agli spazi infiniti. Scoprirono anche che l’aria diventa meno densa e più fredda a mano a mano che sale, al ritmo di un grado ogni 15 metri. Un aereo, ad esempio, che sorvoli l’Italia a 8000 metri, attraversa una temperatura esterna di circa meno 50°.
LA CENTRALE TERMICA E IL VENTILATORE
L’atmosfera è il polmone che permette agli esseri umani di vivere tranquilli sul fondale dell’oceano d’aria che li ospita. Se dovesse “sgonfiarsi”, gli abitanti del pianeta si ritroverebbero su un’immensa Siberia, con il termometro a 35° sottozero.
Altrettanto pericolosa sarebbe se il polmone si bloccasse e non facesse circolare l’aria. La mancanza di una regolare “ventilazione”, trasformerebbe la superficie terrestre metà in termosifone e metà in freezer. Si salverebbe una ristretta fascia di terra, ritagliata a 38 gradi di latitudine nord e un’altra a sud di un rovente Equatore. Per fortuna funziona bene, nonostante i fumi dell’inquinamento che stanno distruggendo i suoi “bronchi”.
La temperatura generale è regolata da una “centralina”, posta all’Equatore. In questa zona vengono registrati, programmi e controllati, i diversi meccanismi che danno aria alla Terra, impedendole di ristagnare sotto una serra asfissiante e cocente.
I
l “tecnico” principale di tutte le operazioni è un signore posto a 150 milioni di km: il Sole in persona. Ogni giorno la nostra maggiore stella “cuoce” il pianeta come un pollo allo spiedo, però in maniera disuguale: bene al centro, poco o nulla alle estremità. Molto caldo, cioè all’Equatore dove i raggi arrivano perpendicolari e concentrati, piuttosto freddo ai Poli, dove gli ultravioletti colpiscono di striscio.
Il calore sprigionato sulla superficie equatoriale, a sua volta, mette in azione un invisibile ventilatore che smuovendo l’aria impedisca al Sole di bruciare del tutto il polo-Terra. L’aria calda diventa leggera e incomincia a salire verso l’alto. Proprio come avviene attorno a un termosifone acceso. Avanzando negli strati più alti si raffredda, diventa più pesante e genera l’alta pressione. E questa situazione forma un anticiclone, con i cieli limpidi e clima secco-stabile. Non per nulla i maggiori deserti del mondo, da quello arabico a quelli australiani si trovano lungo la fascia equatoriale.
Il posto lasciato libero dall’aria calda (depressione) risucchia quella fredda. Questo spostamento di masse d’aria dà origine al vento, autentico “condizionatore” che distribuisce il calore su tutta la Terra. Questo fenomeno si compie con la piccola circolazione che si forma appena si apre la finestra di una camera con temperatura diversa da quella esterna. La medesima situazione si verifica anche nella circolazione generale dell’atmosfera, dove l’aria polare tende a occupare lo spazio occupato prima dall’aria calda. Proviamo, allora, a seguire da vicino il viaggio terrestre dell’aria e dei venti.
EQUATORE – POLI E RITORNO
La linea di partenza è fissata sulla linea dell’Equatore. L’aria surriscaldata dal Sole da qui si alza in volo e devia verso i Tropici, tra i 20 e i 30° di latitudine. Alle sue spalle lascia il vuoto, la depressione equatoriale, un’area di bassa pressione che richiama altra aria per ristabilire l’equilibrio. Questo “scambio” dà origine ai venti alisei (detti anche venti planetari), una delle più grandi “autostrade” celesti che fecero la fortuna degli antichi navigatori e riportarono a casa Cristoforo Colombo dal suo primo viaggio in America. Spirano in due direzioni: da nord-est (emisfero boreale) e da sud-est (emisfero australe) convergendo sull’Equatore.
L’aria calda, giunta alle alte quote, si raffredda, si condensa e ridiscende nuovamente a terra sotto forma di temporali, frequenti in quelle zone. Terminata la perturbazione, riprende a salire fino a circa 15 km d’altezza da cui punta decisamente verso i Poli attraversando le zone temperate. Quando arriva nelle zone polari la corrente d’aria è ancora calda. Viene assalita dai… brividi per il troppo freddo e fa dietrofront, verso i Paesi tropicali ed equatoriali da cui è partita. Per ricominciare un nuovo giro del mondo.
Descritta così, la circolazione planetaria dei venti appare semplice e scontata. In realtà è piuttosto tormentata e complessa. Le valli e le montagne, i ghiacciai e gli oceani portano scompiglio nel …”traffico aereo” dell’aria obbligandola a compiere strane evoluzioni. Gli stessi alisei si comportano in modo strano.
Come mai, invece di prendere la strada diritta verso il nord e il sud, soffiano da est verso ovest?
Una prima risposta giunse nel 1686 dall’astronomo Edmund Halley (quello della cometa), che si limitò a descrivere la formazione di questi venti affascinanti: “Vicino all’Equatore” scrisse, “il calore del Sole fa innalzare l’aria verso le parti dove è più rarefatta e gli alisei soffiano in questa zona occupando il suo posto”. Spiegazione giusta, ma incompleta. Un’interpretazione convincente fu suggerita nel 1735 da George Hadley, un avvocato appassionato di meteorologia.
Lo studioso inglese ipotizzò che il flusso dei venti fosse influenzato dalla rotazione giornaliera della Terra su se stessa. Lo spiegò così: “L’aria spostandosi verso l’Equatore ad una velocità inferiore a quella delle zone in cui arriva, subisce un movimento contrario a quello della Terra”. In altre parole: a causa della differenza di velocità, una corrente d’aria diretta all’Equatore resta indietro rispetto alla Terra e colpisce l’Equatore in un punto leggermente spostato all’indietro rispetto all’asse da cui è partita. Il nostro pianeta, girando da ovest verso est, devia così i venti in direzione ovest.
L’intuizione era giusta. La conferma giunse nel 1835 dal francese Gaspard-Gustave de Coriolis, corredata da un’esauriente spiegazione scientifica. Lo scienziato dimostrò che un oggetto, in movimento su una superficie in rotazione, s’incurva rispetto a tutti gli altri oggetti che vi si trovano. Proprio come succede a una palla di cannone sparata da un mortaio: subisce una deviazione. Senza saperlo, molte persone si sono salvate grazie a questa “forza di Coriolis”. Dovranno pure dire grazie a “fratello vento” per aver spedito da un’altra parte un proiettile diretto contro di loro.
L’ANEMOMETRO
È lo strumento che misura la velocità del vento. Ne esistono diverse versioni. Il più tradizionale è l’anemometro a mulinello, formato da quattro coppe disposte a croce e collegate a un tachimetro, che registra la velocità
A spasso per il mondo dove li porta il vento
Dalla terraferma al mare aperto. Da un capo all’altro del mondo.
Prima di andare a cavallo l’uomo ha imparato ad alzare le vele e a correre sulle onde. Con largo anticipo sulle due e “quattroruote” si è spostato da una parte all’altra con le zattere e le barche sospinte dal vento.
Rileggendo le pagine iniziali della storia umana, alcuni studiosi sono convinti che la primitiva
forma di civiltà sia cresciuta lungo un’isoterma (cioè una linea che unisce i luoghi che godono della medesima temperatura media) di 20°. Queste località con un clima gradevole, non a caso, corrispondono alle prime civiltà avanzate: Cartagine per fenici, Menfi per gli egiziani, Ninive per gli assiri, e dall’altra parte dell’oceano, Teotihuacan per gli atzechi, Cuzco per gli incas e Tikal per i maya. Gli stessi romani e i greci poterono costruire la loro fortuna partendo da condizioni climatiche favorevoli. Merito, ancora una volta, di quel grande “condizionatore” climatico che è il vento.
IL COMMERCIO A GONFIE VELE
Una volta scoperto che il carburante-vento era il propellente per la navigazione a miglio prezzo, i popoli della Mezzaluna fertile incominciarono a sfruttarlo commercialmente. Scesero in mare con le stive cariche di prodotti locali da vendere in cambio di materie prime, necessarie alle loro “industrie”. Duemila anni prima di Cristo, nel Mediterraneo scorrazzavano le navi di Creta con le stive ricolme di olio, grano, legname e rame. Il “mare nostro” divenne il bacino di scambio dell’attività commerciale alle battute iniziali, gestita da mercanti astuti e da marinai abili nello sfruttare i venti sia all’andata che al ritorno.
Intorno al 1000 a.C. i fenici soffiarono il primato ai cretesi. Con imbarcazioni agili e dalla forma arrotondata si imposero su qualsiasi concorrenza. Attraverso una fitta ragnatela di rotte collegarono le loro colonie disseminate sulle sponde del Mediterraneo. Fecero delle puntate, piuttosto temerarie per l’epoca, fino alle Colonne d’Ercole (Gibilterra) e nelle Azzorre. E, meraviglie delle meraviglie, i signori della porpora, nel 595 a.C. circumnavigarono l’Africa, con la sponsorizzazione del faraone Necao.
Gli altri popoli non stettero a guardare. Si avventurarono in imprese altrettanto grandiose. Eratostene di Alessandria d’Egitto scrisse che marinai e mercanti egiziani raggiunsero l’attuale Sri Lanka, nell’oceano Indiano. Sicuramente furono aiutati dalle raffiche dei monsoni, i venti che spazzano i cieli dell’Oriente nei due mesi di marcia, molto costanti e prevedibili quanto a periodicità.
Ovviamente quella dei monsoni fu una scoperta eccezionale, un segreto da custodire gelosamente per un loro sfruttamento esclusivo. Ma nel 300 circa a.C., anche il pilota di Alessandro il Grande si accorse della presenza di questa “energia pulita” e del suo andare e venire a ritmi regolari. In poco tempo gli imperi, grandi e piccoli, calarono in acqua le loro navi nei mesi di giugno, luglio e novembre, la stagione favorevole dei monsoni.
LA STAGIONE DEI GRANDI NAVIGATORI
Roma, in particolare, non si lasciò sfuggire le sue triremi alla conquista di quel mare. Sotto l’imperatore Claudio, negli anni 40 d.C., le navi romane andavano e tornavano dalle Indie in un solo anno, incluso il passaggio attraverso l’Egitto. Come souvenir del viaggio, i commercianti riportavano nella capitale animali in pelle e ossa: elefanti, tigri, leoni, impiegati nei circhi per i passatempi dei signori e degli schiavi. Ormai la moda dell’Oriente era scoppiata. Un editore furbastro si arricchì pubblicando una guida per i naviganti, una specie di Pagine Gialle che segnalava i nomi dei porti e le informazioni sui venti e le maree.
Gli armatori più intraprendenti sfruttarono il momento favorevole del mercato per allestire flotte di veri e propri “transatlantici”. Uno di essi disponeva di un avveniristico “sette vele”, mentre un altro, battente bandiera greco-egiziana, si vantava di un’imbarcazione-cargo lunga 55 metri, capace di trasportare grano per rifornire tutta l’Attica.
Dopo questa fiammata iniziale, le “compagnie” di navigazione europee furono costrette a ridimensionare il volume di traffico con l’Asia, per ragioni di Stato. Le loro terre furono invase dai barbari a nord e dagli eserciti arabi che provenivano da Oriente. Le crociate, a loro volta indette per la liberazione dei Luoghi Santi della Palestina, assorbirono buona parte delle flotte per il trasporto dei soldati.
Il traffico riprese regolare nella seconda metà del Quattrocento. Coincise con la discesa in acqua dei grandi esploratori: Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, Magellano, Vaco de Gama… Quest’ultimo, bissando la prima circumnavigazione dell’Africa compiuta duemila anni prima dai fenici, inaugurò l’era coloniale. Era il 1498.
Gli Stati con vista sul mare, fiutarono il grosso ritorno economico dei viaggi intercontinentali e non se lo lasciarono sfuggire. Spagnoli, portoghesi, italiani, inglesi, olandesi e francesi investirono in cervelli per la preparazione di carte topografiche e mappamondi e in architetti per la costruzione di nuove e funzionali “caravelle” d’acqua salata. Nacque così il vascello a tre alberi, la nave-jolly del Rinascimento. La sua possente struttura lo rendeva abile ad affrontare le burrasche e gli uragani e a scivolare sulle onde dietro la spinta delle correnti occidentali e dei preziosissimi alisei.
UNA VENTATA DI VAPORE
Anno dopo anno, onda dopo onda, i sempre più sofisticati e veloci jet del mare collezionarono record su record. I velieri del tè riuscivano a compiere la rotta “Canale della Manica-Città del Capo” in soli tre mesi. Salvo imprevisti. Altri vascelli in 30 giorno passavano dall’Australia alla punta del Sudamerica. In due mesi, invece, la nave Thermopylae collegava la Gran Bretagna a Melbourne, in Australia.
La concorrenza si fece spietata. La carta vincente per spuntarla sui mercati rivali era la riduzione di costi di navigazione. La Compagnia delle Indie Orientali puntò sui brigantini-golette, navi molto veloci, ben armate, gestite con poco personale. Tuttavia queste meraviglie della tecnica nautica avevano esaurito il compito. Per loro era giunto il tempo di sedersi in …banchina per raggiunti limiti di età. All’orizzonte si delineava la sagoma delle nuove navi a vapore. Non sarebbero dovute dipendere dai favori e dai capricci del vento. Era il 1850.
Le gloriose imbarcazioni a vela sostennero il confronto inizialmente, con l’offerta di tariffe più convenienti. Il vento, come sempre, non pretendeva alcun acconto sul servizio offerto. Un particolare tutt’altro che trascurabile, anche ai nostri giorni. I primi a capirlo sono stati i giapponesi che hanno montato sulla petroliera Shin Aitoku Maru due rigide vele di plastica di 90 mq. Sono meno belle da vedere a confronto con gli antichi fazzolettini di tela, ma più efficienti e soprattutto più economiche dei motori a nafta. Il vento, ancora una volta, dà una mano alla Terra. Anche solo a salvare i suoi mari da qualche goccia di veleno in più.
Il niño e i suoi fratelli - Quando il vento gonfia i muscoli
Gli scherzi del Bambino terribile. Nell’occhio del ciclone. Tra tornadi, monsoni e tempeste di sabbia.
“C’è poco da scherzare con il vento”, un tipetto che cambia umore facilmente. A seconda di come gli gira …la banderuola. Quando s’inalbera, conviene girare alla larga. Anche se non è sempre possibile perché ti insegue con i suoi invisibili tentacoli. Gelidi come mistral che flagella la valle del Rodano o infuocati come o scirocco che tormenta il Sahara.
Ormai tutti conoscono, e temono, le sue sfuriate che esplodono appena scoppia la battaglia sui “fronti” caldi e freddi dei cieli. Prendono la fisionomia di temporali, cicloni, tornado, trombe d’aria, tempeste di sabbia…: una specie di famiglia Adams che recita sotto la regia del vento. Vediamoli in azione, anche se ci sarà da ridere.
EL NIÑO TERRIBILE
Chi programma le vacanze ai tropici in estate rischia grosso. Potrebbe essere coinvolto nella danza della pioggia di esseri spaventosi come gli uragani.
Li chiamano così, nell’Atlantico settentrionale, in omaggio ad Hunraken, il dio della tempesta dei Maya; mentre nell’Oceano Indiano li definiscono cicloni (dal greco kuklos che significa “circolare”) e in Cina tifoni. Nomi diversi, ma la sostanza, paurosa, è la stessa.
La star di tutti gli uragani oggi si chiama El niño, un autentico fenomeno atmosferico. Sovente in prima pagina per le sue imprese disastrose, toglie il sonno, ed anche la vita, a quanti periodicamente se lo vedono recapitare dal vento davanti a casa. Una delle sue ultime spaventose “interpretazioni” è stata girata in Perù, luogo di nascita del Bambinello, nell’estate 1997-1998. Si è spinto migliaia di km più a nord, colpendo le coste del Messico e della California e seminando distruzione e morte.
Una brutta fama la sua, conquistata in secoli di onorato …disservizio, con cui porta le temperature a livelli insopportabili e fa cadere piogge torrenziali. Le acciughe non si fanno vedere sulla costa più pescosa del mondo, gli uccelli marini muoiono a centinaia, intere famiglie di pescatori dall’Ecuador al Cile gettate nella disperazione.
Ogni volta che l’aria si surriscalda in maniera esagerata, quasi automaticamente compare il “Bambino terribile”. Così è avvenuto nel lontano 1532, anno in cui il Niño si affacciò quasi sicuramente sulle coste del Perù.
Da allora, il ciclone-Bambino si fa presente, in media ogni sette anni, in coincidenza con il surriscaldamento dell’atmosfera. Una scadenza attesa con paura.
ARRIVA L’URAGANO: APRITI CIELO
I “fratelli” del Niño non temono il confronto, anche se meno famosi quanto a nome ma non a capacità di fare disastri. L’uragano, come il ciclone e il tifone, è una tremenda forza della natura, un concentrato di energia piazzato a 5000 metri d’altezza. Possiede un potenziale distruttivo pari a 25 mila bombe atomiche come quella sganciata su Nagasaki nella seconda guerra mondiale. Quando svuota i suoi serbatoi può restituire al mare o alla terra circa 20 mila milioni d’acqua al giorno.
La sua inconfondibile foto segnaletica, diffusa da satelliti, lo rappresenta con un occhio centrale, alla Polifemo, circondata da un rotolo di soffici nuvole in rotazione (cumulo-nembi). L’occhio è il nucleo della perturbazione, un’area di 10-15 km di bassa pressione, la cui temperatura è superiore di una decina di gradi rispetto ai bordi dell’uragano.
Come tutti i fenomeni simili, l’uragano si auto genera con lo spostamento di masse d’aria. Il suo luogo preferito di …villeggiatura si trova nell’oceano tropicale. Lo specchio d’acqua, bombardato per mesi dai micidiali raggi solari, diventa un enorme pentolone in ebollizione. L’acqua evaporando spedisce velocemente nell’atmosfera un mix di aria calda e umida, subito sostituita da altre molecole più fredde. In questo modo il famoso ventilatore, azionato dal sole e sospinto dalla rotazione terrestre, imprime un movimento a spirale all’aria.
La colossale “bomba ad acqua” è pronta ad esplodere. Si mette in movimento a una velocità di 200-300 km orari in direzione della terraferma dove scatena tutta la sua rabbia. Si calmerà soltanto quando al ventilatore non arriva più il rifornimento del calore dell’oceano. Non prima però di aver seminato distruzione e morte lungo le coste toccate. Il ciclone Andrew, uno dei più violenti, nell’agosto del 1992 ha devastato la Florida e la Louisiana. Dietro il suo passaggio lasciò decine di morti, due milioni e mezzo di senzatetto e due miliardi di dollari di disastri. Un suo “parente”, nel 1965, spazzò via nel Bangladesh 300 mila persone.
I satelliti riescono a prevedere gli spostamenti dei cicloni, ma non possono nulla contro il suo comportamento bizzarro. Per fortuna degli abitanti, soltanto una piccola parte delle centinaia di temporali che si abbattono ogni anno sui tropici, si trasforma in uragani..
TORNADO, L’IMBUTO IMPAZZITO
Chi riesce a fare anche di peggio è il tornado, il più violento di tutti i fenomeni legati al vento. Tanto da meritarsi una parte importante nel film Twister prodotto da Steven Spielberg. A differenza del “fratello”, prende vita sulla terra, come una temperatura atmosferica molto più ridotta e limitata, ma con una maggiore potenza distruttiva. Predilige le grandi pianure americane, in particolare il corridoio che unisce il Texas al Canada, passando per il Kansas e l’Illinois. Oltre 70 tornadi all’anno si avvitano dalla superficie verso il cielo, quando l’aria caldo-umida del Golfo del Messico si scontra con i venti freddi del Polo.
Il tempo di gestazione del tornado cade in aprile e settembre. Punto di partenza, come per l’uragano, è uno spazio di bassa pressione. L’aria calda, leggera e umida, sbatte contro dell’altra aria fredda, più secca e pesante, viene risucchiata verso l’alto. Subisce una forte accelerazione, tanto più veloce quanto maggiore è la differenza di temperatura. Assume la caratteristica forma a imbuto, simile a un fazzoletto attorcigliato a vite che si dispiega in alto.
A questo punto il tornado può innestare la marcia e fiondare sulla terra. Prima, però, lancia qualche segnale di avvertimento, che gli abitanti del posto sanno decifrare per tempo. Il cielo si oscura, non spira un benché minimo refolo di vento. Un frastuono come quello di una formazione di supersonici in volo a bassa quota lacera l’aria. Avverte che “l’imbuto” si sta scatenando. E così avviene.
Il tornado parte a folle velocità, oltre 200 km orari. Va a sbattere violentemente contro tutto ciò che incontra sulla strada, come una macchina sportiva impazzita che vola sul pubblico. Capotta, si rialza e ricade, lasciando dietro di sé una scia di disastri. Colpisce in modo disordinato, ma tremendo. È capace di abbattere le case sistemate su un lato di una strada e risparmiare quelle che si affacciano sulla parte opposta.
Il tornado può nascere direttamente anche dall’oceano, sotto forma di tromba marina. L’imbuto d’aria, allora, risucchia una smisurata quantità d’aria, del diametro di 100 metri circa, e la disperde poi in goccioline. Il fenomeno, visto dalla terraferma, appare perfino spettacolare. Non così per chi dovesse trovarsi nei paraggi.
I MONSONI: BRAVI E VIOLENTI
Meglio di tutti i “fratelli” si comportano sicuramente i monsoni. Hanno una vita più tranquilla, meno imprevedibile e disordinata. Almeno a loro confronto. Soffiano regolarmente per sei mesi in una direzione e per gli altri sei in senso contrario; da sud-ovest prima, attraverso l’Oceano Indiano, e da nord-est, poi. Sarà per questa ragione che gli arabi l’hanno chiamato mausin, che vuol dire appunto “stagione”
I monsoni sono una vecchia conoscenza dell’uomo. Già nel IV sec. a.C., il filosofo greco Aristotele descrisse questa loro curiosa alternanza, sfruttata presto dai mercanti arabi e dagli esploratori occidentali. La spiegazione scientifica del fenomeno, però, fu portata in parte soltanto nel 1686 da Edmund Halley in relazione agli alisei. Tuttora questi venti nascondono la loro vera origine.
Continuano tranquilli la loro vita. Che ha inizio nei mesi invernali, con la discesa dei venti freddi dall’Himalaya sui cieli dell’India, dominati da una bassa pressione. Per effetto della “forza di Coriolis” vengono deviati fin sulle coste dell’Africa occidentale.
Nel mese di aprile la stagione secca e calda giunge al top. Gli abitanti del continente indiano, logorati da un caldo torrido e insopportabile, invocano disperatamente la pioggia sotto un cielo ancora orfano di nuvole. Devono aspettare fino a maggio, quando una leggera brezza da sud-ovest increspa appena l’aria. È il segnale atteso, il biglietto da visita dei monsoni che stano per presentarsi.
Il cielo, che per mesi non ha conosciuto il passaggio di una nuvola, si gonfia come un palloncino d’acqua e scoppia rovesciando fiumi di pioggia sulla terra riarsa. Senza risparmi, anche perché non ci sono bollette da pagare. In sei mesi è capace di riversare anche 5 metricubid’acqua, che allagano villaggi e campagna come una vasca da bagno riempita a metà. Ogni anno le precipitazioni toccano cifre record. Nella cittadina di Cherrapunji, ai piedi dell’Himalaya, i temporali rovesciano in media 11 mila mm d’acqua. Una volta raggiunsero i 26 mm. Un’esagerazione, davvero.
La musica cambia a settembre e ottobre. La temperatura della terraferma e del mare tornano in parità, il vento cade e le piogge, di conseguenza, fanno le valigie fino a scomparire in lontananza. Il vento cambia senso di marcia, riprende a soffiare da nord-est, con grande sollievo di chi può tornare finalmente all’asciutto.
POLVERE E SABBIA
Il vento ama giocare con la polvere e la sabbia, anche in modo esagerato. Lo sanno bene gli abitanti delle zone desertiche, che distinguono tre tipi di tempesta: a muro, a colonna e a coltre.
La prima è annunciata da una calma irreale, calda e pesante. Subito all’orizzonte avanza una massa giallastra che cresce fino a diventare un “muro” alto più di 2 km. Questo genere di tempeste scuotono i deserti del Gobi, del Sudan e dell’Australia.
Il secondo tipo di perturbazione sabbiosa sembra una colonna a spirale, simile al tornado. Perseguita sovente le popolazioni di alcune zone dell’India e del Sahara che l’hanno ribattezzata con la colorita espressione di “diavoli della polvere che ballano il valzer”. Disturba volentieri anche i californiani, che la indicano come “succhielli per sabbia”.
La terza, infine, è una nuvola di sabbia fine che arroventa il cielo e sommerge ogni cosa. Può assumere dimensioni bibliche. Una delle regioni più colpite attualmente è l’Iran (come se non avesse già abbastanza problemi!). Puntualmente, da giugno a settembre, si riaffaccia questo flagello che tormenta gli occhi e mescola la polvere ai cibi e alle bevande. Il vento, come si vede (e si sente) sa fare anche i dispetti.
IL POSTO PIÙ VENTOSO AL MONDO
Il luogo dove il vento non si ferma mai di volare è in Antartide, sul bordo delle montagne della Terra Adelia orientale. Il più forte colpo di vento fu registrato il 12 aprile 1934 sulla cima del monte Washington, negli Appalachi settentrionali: 371 km all’ora. Sono esclusi dalla competizione i tornadi, perché fuori quota, visti che possono raggiungere anche i 700 km/h.
Al servizio dell’uomo – Dal boomerang ai mulini a vento
I riti spaventa-vento. L’aquilone al guinzaglio. Rotori e ventilatori. L’energia eolica.
Il vento è davverouna forza della natura. Difficile da controllare, più dell’acqua e del fuoco, soprattutto quando fa i caprici. L’uomo non si è mai arreso e ha accettato la sfida, sorretta dalle preghiere, dai riti magici e perfino dalle minacce (un po’ ridicole, in verità).
Gli antichi esquimesi cercavano di calmare la bufera che impediva di andare a caccia per settimane intere, battendo l’aria con una frusta di alghe. I sacerdoti e i guerrieri dell’India e del Borneo facevano roteare le spade per impaurire il nemico invisibile. Nella Nuova Guinea lo spaventavano (!) con un mazza. In Scozia gli lanciavano contro una scarpa sinistra. Chissà quante risate si sarà fatto sua maestà il vento davanti a questi tentativi scaramantici.
Migliori successi sono arrivati quando i terrestri si sono impegnati a sfruttare la sua energia a scopi pacifici, dalla vela gli aerei, passando per altre prodigiose invenzioni.
I PRIMI VOLI ORGANIZZATI DALL’UOMO
Penne degli uccelli, la prima ala portante fu quasi certamente il boomerang, un piccolo capolavoro di ingegneria aeronautica. Semplice nella struttura di legno (una specie di “V” aperta su un angolo tra i 70 e i 120 gradi), e funzionale per la caccia agli uccelli. Può colpire l’obiettivo anche fino a una cinquantina di metri, altrimenti innesta la retromarcia fino al punto di partenza. Era in dotazione degli “eserciti” australiani, di alcune tribù dell’Africa, dell’India meridionale e del Nord America.
I cinesi applicarono al boomerang un …guinzaglio, trasforma dolo in aquilone. Nel II sec. a.C. lo utilizzavano per recapitare, di notte, i rifornimenti alle città assediate. Lo stesso Marco Polo, giunto nel regno del Kublai Kan nel 1282, vide gli aquiloni che trasferivano tegole e mattonelle sui tetti delle pagode.
Nel 1500, i mercanti europei, di ritorno dai loro viaggi commerciali, importarono gli aquiloni made in China. I bambini incominciarono a giocarci, e i più grandi impiegarlo come mezzo di trasporto. Nel 1752 lo scienziato Benjamin Franklin utilizzò un aquilone per portare una punta metallica nel cuore di un temporale e per farsi trainare sulla superficie di uno stagno.
A fine ottocento, un prototipo speciale, chiamato “Leviator” costruito da Baden Powell, il fondatore degli scout, riuscì a sollevare una persona. Si alzarono in volo anche i primi alianti, ispirati al volo dei gabbiani. Nel 1894 fu il turno del “trasportatore di uomini”, una specie di biplano progettato dal tedesco Otto Lilienthal e dall’americano Charles Lamson. L’aere a questo punto non poteva più sopravvivere come un vecchio sogno. Lo realizzarono i fratelli Wright, librandosi in aria con una “macchina volante” per dodici secondi. La forza di gravità era vinta. Con l’aiuto del vento.
VELE AL VENTO
Un altro classico impiego “industriale” della forza dell’aria è il mulino a vento. La prime testimonianze di questa invenzione conducono in Persia, sei-sette secoli prima di Cristo: venivano impiegati per pompare acqua e macinare i cereali. La “macchina” fondeva insieme la ruota ad acqua usata dai Romani e l’elica a lame, impiegata dai monaci buddisti per far girare i cilindri su cui erano scritte le preghiere.
L’idea fu copiata dagli abili cinesi e diffusa in Occidente, pare dai Crociati dopo il 1096. Notizie sicure sul primo mulino europeo risalgono tuttavia al 1180. Una citazione indiretta parla del dono a un’abbazia di un terreno “vicino a un mulino a vento”, in Normandia. Da questo punto in poi le segnalazioni di nuovi mulini si moltiplicano, insieme ai disegni che li descrivono.
Inizialmente erano “a palo”, una colonna centrale con le lame infisse che veniva orientata in direzione del vento. Il modello successivo prese la forma di una torre, con le pale ruotanti, ricoperte da vele e giunchi. Nel 1772 lo scozzese Andrew Meikle realizzò la “vela a molla”, un particolare meccanismo che apriva e chiudeva delle imposte di legno, simili alle persiane, secondo la potenza del vento.
I mugnai si abituarono ad usare il loro “macina-grano” anche come …bacheca per gli avvisi. Se lasciava quattro braccia perfettamente verticali e orizzontali, voleva dire “Sono in casa” o “ Torno subito”. Se le poneva in diagonale, tutti capivano che quel giorno era “Giorno di riposo”. Lo usava anche per lanciare il segnale di nemici ed esattori in vista alla gente del posto. In caso di morte del titolare, il mulino …incrociava le braccia che restavano immobili per diverso tempo.
Nel periodo di massima espansione si contavano in Europa un 100 mila mulini, che spiegavano le vele al vento come navi ancorate sulla terraferma. Lavoravano a trasformare il grano in farina, le olive in olio, i tronchi in tavole, al comando di uomini che sapevano regolare le mastodontiche “girandole” sull’umore del vento.
Oggi di quell’antica flotta sopravvivono alcune centinaia di esemplari. Alcuni in attività, altri trasformati in abitazioni e museo. Tutti, comunque, sempre affascinanti, specialmente quando le loro vele si lasciano cullare dal vento. Ne sono nati di nuovi, più efficienti ed evoluti.
LE FATTORIE DEL VENTO
La rivoluzione industriale, avviata nel secolo scorso, si avvalse della collaborazione di queste macchine da vento fino alla scoperta del vapore. Nel 1850, molte fattorie americane si dotarono di una versione di mulino a più pale per un totale di sei milioni di esemplari. Avanzava, intanto il progetto di impiegarli per trasformare in energia la forza e il movimento del vento.
Nel 1890, la Danimarca era in grado di produrre un quarto della sua energia elettrica per mezzo di settemila mulini. Più tardi costruì 72 nuove torri che facendo ruotare pale di 22 metri di diametro immettevano corrente elettrica nazionale. Rimasero in servizio fino al 1960. Nel medesimo periodo molto ranch americani installarono mezzo milione di “caricatori a vento” che alimentavano lampadine, radio e frigoriferi.
Lo studio su come rubare energia al vento, fu premiato con scoperta dell’”effetto Magnus”. Uno scienziato tedesco notò che un cilindro in rotazione dentro una corrente d’aria riceveva una spinta laterale. Detto fatto. Piazzò due di questi cilindri su una nave, ed essa, nel 1925, riuscì ad attraversare l’Atlantico. La stessa trovata era stata applicata, due anni prima, dall’inventore finlandese Sigurd Savonius. Aveva migliorato il meccanismo del rotore a vento e lo applicò ai moderni ventilatori. Ottenne un successo enorme.
Dal 1939 al 1941 l’ingegnere americano Palmer Putnam realizzò il rotore più grande del mondo su una collina del Vermont, sferzata dal vento. Le due lame da 53 metri e 8 tonnellate l’una, girando, sprigionavano 1500 kilowatt, una bella quantità per un tempo di guerra. Dopo quattro anni di attività le pale si ruppero e il mulino a rotore fu abbandonato.
L’entusiasmo per questa fonte di energia si affievolì notevolmente anche se furono realizzati nuovi impianti si in America che in altre nazioni. Si riaccese durante la crisi del petrolio all’inizio degli anni ’70 con risultati parziali. Per mantenere queste enormi girandole d’acciaio occorre un vento costante. Molte volte, purtroppo, esso si fa desiderare, rendendosi prezioso ma anche poco affidabile. Si pensa che la soluzione migliore sia quella di puntare sulle grandi fattorie a vento, le wind farm. In questo modo si risolverebbe l’inconveniente di un vento irregolare con un famiglia di centinaia, o addirittura migliaia , di “mulini” piazzati in luoghi esageratamente ventosi.
IL NOME DEI VENTO
Il vento possiede diverse “carte d’identità”, dai nomi più curiosi. Ne presentiamo i più famosi.
° Alisei: venti costanti che soffiano sulla fascia equatoriale e tropicale, compresa fra le latitudini di 30° nord e 30° sud.
° Bora: vento secco, freddo e tempestoso che spira da nord-est sulle coste del Dalmazia e dell’Istria. Le sue raffiche possono raggiungere i 15okm/h.
° Fôhn: vento caldo e secco che soffia lungo le vallate alpine ed i pendii padani. Deriva dal latino favonius o dal gotico fùn (= fuoco).
°Maestrale: caratteristico del Mediterraneo centrale, freddo e secco, spira da nord-ovest. In Italia predilige le coste occidentali dell’Adriatico, dello Ionio, della Sardegna e della Corsica.
° Mistral: freddo, secco burrascoso, infuria a nord-ovest della valle del Rodano, in Provenza. Il suo nome deriva dal latinomagistralis (= del padrone).
° Ponentino: brezza di mare che accarezza le coste del Lazio.
° Scirocco: vento secco e caldo, di primavera, proviene dal sud del Sahara. È conosciuto anche come Ghibli e Chili.
° Zeffiro: Brezza mite, che soffia in Italia apportando tempo caldo e gradevole, deve il proprio a un’antica divinità greca.
IL VENTO TRICOLORE
La California ospita già questi enormi gigli bianchi con petali che ruotano nelle più grandi wind farm del mondo. Qualcuno, come l’esperto Lyall Watson, propone di ancorare i mulini su piattaforme in mezzo al mare, per trarre vantaggio anche dal saliscendi delle onde create dal vento. Soluzione geniale, per ora ancora sulla carta.
In attesa di novità, l’energia eolica produce in un anno 7488 kilowattora in maniera pulita, l’equivalente di cinque centrali nucleari. L’Italia dimostra di credere nel vento e lo considera suo alleato. Nel foggiano, tra Monteleone Anzano e Sant’Agata di Puglia, ha costruito il più grosso polo eolico d’Europa che rifornisce 49 megawatt di energia pulita. L’Enel ne sta utilizzando altre tre. Il vento sta lavorando anche per noi, dunque.
L’uomo non ha ancora esaurito la sua capacità di sfruttare il vento, e neppure ha trovato le soluzioni per capire meglio tutti i suoi effetti sulle più moderne realizzazioni: le oscillazioni dei grattacieli, l’aerodinamicità, quoziente di penetrazione degli aerei. Molte risposte provengono dalla galleria del vento, un ambiente sofisticato in cui l’aria forzata viene generata e spinta a velocità supersoniche. Ma molto resta da fare. Del resto il vento ne ha …di tempo. Paziente va per la sua strada, sparisce e ricompare con un amico. Un amico non sempre fedele.
IDENTIKIT DELLE NUVOLE
Il primo studioso che all’inizio del secolo scorso “battezzò” le nuvole fu il meteorologo dilettante Luke Howard.
Individuò tre principali “famiglie” di nubi: i cumuli, gli strati e i cirri e aggiunse il termine nembo a quelle che portavano pioggia.
I cumuli (dal latino cumulus = mucchio) si formano a circa 1 km di altezza; sono bianchi, con una parte inferiore piatta e quella superiore a forma di cupola.
Gli strati, (dal latino stratus = estensione), sono ammassi scuri da bianco scuro a grigio intenso e somigliano a grossi ciottoli o lastroni. Spesso si “saldano” tra di loro per ricoprire tutto il cielo.
I cirri (dal latino cirrus = fiocco), costituiti da cristalli sottilissimi di ghiaccio, “abitano” sui 6-10 km d’altezza e sono quasi sempre indice di cattivo tempo.
Gli effetti del vento – Non si vede ma si sente
5600 milioni di tonnellate a persona. Il pony-express della vita. Il Vento dello Spirito.
Invisibile come un fantasma, delicato come una carezza, violento come uno schiaffo. Gradito e temuto, invocato e maledetto. Alleato e nemico. Praticamente insostituibile. Dalla prima boccata d’ossigeno catturata voracemente dal neonato, all’ultimo respiro di chi se ne sta andando per sempre.
Eppure lo ignoriamo, anche se ci avvolgono 5600 milioni di tonnellate d’aria, una riserva inesauribile. A meno che gli abitanti della Terra non continuino ad inquinarla senza criterio. In pratica, ogni persona che viene al mondo, riceve in consegna un bonus di un milione di tonnellate d’aria da consumare. In un anno ne fa fuori in media cinque milioni di litri d’aria. Per esaurire del tutto la scorta, dovrebbe vivere oltre 160 mila anni. Avanti, chi può!Non è questo l’unico apporto benefico che il movimento sa offrire. Il vento invia continuamente speciali input al nostro corpo attraverso i 10 milioni di terminali nervosi sparsi sulla pelle. Il “Ponentino”, ad esempio, che rinfresca Roma dall’afa estiva., può trasmettere un gradito effetto-benessere fisico, e insieme, un pizzico di euforia. Il vento di tramontana che sferza la faccia, al contrario, accelera i battiti cardiaci e rende irritabili e perfino paurosi.
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IL VENTO DELLO SPIRITO
Questo, e molto altro ancora, è “l’aria in movimento”. La Terra, in sua assenza, sarebbe, troppo fredda ai Poli e troppo calda all’Equatore.
Invivibile. L’uomo non resisterebbe su uno scenario simile. Non sopravvivrebbero neppure gli animali, le piante, i fiori e i frutti. Il vento, da bravo pony express,recapita loro informazioni genetiche, pollini e spore che favoriscono l’impollinazione e la generazione delle diverse specie. E contemporaneamente, aspetto meno piacevole, fa viaggiare batteri e virus che diffondono infezioni e malattie. Sono piccole e grandi magie che hanno acceso la simpatia e perfino la venerazione degli uomini nei confronti del vento. In molte culture si ritrovano leggende che descrivono la sua origine divina più o meno sul motivo del mito di Eolo, nato in Germaniamille anni a.C. Eolo, figlio del dio del mare Poseidone, teneva incatenati i venti, divinità turbolenti e inquiete, nell’isola Eolia. Poiché faticava a tenerli buoni, se ne liberò alla prima occasione impacchettandoli in un sacco a pelle e li regalò a Ulisse. Il suo equipaggio lo aprì sperando di trovarvi un tesoro. Raccolsero, invece, soltanto una tempesta che li travolse.
Su questa falsariga ruotano altri miti e immagini. Alcuni tentano di descrivere “la casa del vento” e la localizzano in caverne, fessure. Altri “cosificano” l’aria dandogli la fisionomia di un uccello, come il corvo per gli Indiani del Nuovo Messico e gli esquimesi del Mare di Bering o l’aquila dei norvegesi. In ambienti più avanzati il vento serve ad indicare realtà spirituali. Nella tradizione biblica indica il soffio di Dio. La parola ebraica ruah, usata per la creazione, vuol dire “respiro” ma anche “spirito”. Spirito di Dio è il vento che vibra sulle acque primordiali. Spirito è anche il soffio di vita immesso dal Creatore nell’uomo e nella donna. Spirito Santo, infine, è il dono che gli Apostoli ricevono il giorno di Pentecoste.
Aveva ragione Francesco d’Assisi a chiamarlo “fratello vento”. In segno di amicizia e di riconoscenza, in quanto creatura di Dio. Ma anche come fonte di elevazione verso l’alto. Un allenamento alla tua portata.
Potrebbe succedere, che a forza di guardare il cielo, come si augurava Gustave Flaubert, anche tu non finisca per avere le ali. Le ali del vento.
PAROLE AL VENTO
Il vento ha ispirato molti modi di dire. Eccone alcuni.
° Chi semina vento raccoglie tempesta. (Chi si comporta male riceverà peggio).
° Gridare ai quattro venti. (Diffonde una notizia segreta).
° Parlare al vento. (…senza successo, come succede ai genitori con i figli).
° Fatiche gettate al vento. (Sudore sprecato).
° Veloce come il vento. (Tipo scattante).
° Girare secondo il vento che tira. (Essere una banderuola, senza personalità).
° Pieno di vento. (Persona boriosa).
° Restare con le mani piene di vento. (Rimanere delusi, senza alcun risultato positivo).
° Navigare con il vento in poppa, a gonfie vele. (…con il favore della sorte).
° Qual buon vento ti porta? (Quale fortunata circostanza ti porta qui?)