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PATTINI D'ORO

“Forse capirò che cosa ho fatto quando sarò da solo, in montagna, in mezzo al bosco”. Così Enrico Fabris, il pattinatore azzurro eroe delle ultime Olimpiadi invernali, a chi gli chiedeva di commentare le straordinarie imprese che lo avevano visto protagonista. “Mi sembra di vivere un sogno che non finisce mai. L’unico ricordo reale che mi porto dentro è quello delle mie gambe che spingevano e degli avversari che venivano rimontati”.
Quelle gambe, lunghissime, potenti, “due bombe a innesco rapido”, come le ha definite Franco Bragagna, hanno consegnato Enrico Fabris, vicentino dell’altopiano di Asiago, poliziotto delle Fiamme Oro, alla storia delle Olimpiadi. Nessun italiano era mai riuscito a conquistare tre medaglie, due d’oro e una di bronzo, in una specialità come il pattinaggio da sempre monopolio dei russi, dei canadesi, degli atleti nordici in generale.
La grande popolarità acquisita, il fatto di essere finito sulle prime pagine di tutti i giornali e al centro delle principali rubriche televisive, non ha tuttavia alterato di una virgola il solare equilibrio di questo ragazzo che si è fatto apprezzare soprattutto per la sua invidiabile semplicità.
“A richiamarmi subito alla realtà – confida - è bastato un sms di un mio compagno di Università. C’era scritto: ‘Ciao, ti ho visto in televisione e mi sei venuto in mente. Quando mi porti gli appunti di economia?’ Prestissimo, gli ho risposto. Perché non vedevo l’ora di tornare alla vita di tutti i giorni, di andare a trovare mia nonna Gina e di fare una passeggiata con mio fratello, come dicevo, in mezzo ai miei boschi”.
Chi è Enrico Fabris, nella vita di tutti i giorni? “Sulla mia carta di identità, alla voce professione, c’è scritto poliziotto. Lo sono da due anni, sono orgoglioso di appartenere alle Fiamme Oro, un grande gruppo sportivo che mi consente di dedicarmi senza problemi al mio sport preferito. Non sono un graduato, sono l’ultima ruota del carro, chissà che queste medaglie olimpiche non mi regalino una promozione! Nel frattempo non perdo di vista l’Università, sono iscritto a Scienze forestali a Padova, anche se frequento poco e sono un po’ indietro con gli esami”.
Roana, il paese dove abita Enrico Fabris, è uno dei “Sette Comuni” dell’altopiano di Asiago dove i vecchi parlano ancora il taucias gareida, il dialetto bavarese del Duecento, una lingua che alcuni studiosi ritenevano fosse addirittura l’antico cimbro. Paese legato alla tradizione che non perdonerebbe a Enrico alcuna deroga a quello stile di vita severo, quasi spartano, che da queste parti è una consuetudine consolidata.
Lui ne parla con molta sincerità. “Sono cresciuto in una famiglia che mi ha educato secondo i valori cristiani. Un’educazione severa ma non troppo, che è stata comunque fondamentale. Senza inculcarmeli, i miei genitori mi hanno insegnato i giusti valori della vita. Tra i miei tifosi c’è anche mio zio Romeo, un sacerdote. Sono valori di cui sono convinto, anche se la vita da atleta mi ha un po’ allontanato dalla pratica. Credo tuttavia che la religione sia un fatto intimo, da vivere secondo la propria sensibilità, senza spettacolarizzazione”.
Il successo, si diceva, non lo ha cambiato. Enrico è un ragazzo semplice ma non ha gusti semplici. E ha sempre cercato di inseguire ciò che ha fortissimamente voluto. “Ho cominciato dieci anni fa con il pattinaggio – dice - e ho preso subito le cose sul serio, soprattutto dal punto di vista dell’allenamento. Sono un fanatico della preparazione, quando c’è da andare in pista non guardo in faccia a nessuno, spesso i miei amici ci restano male”.
Per gli amici, e per tutta la gente di Roana, Enrico Fabris è semplicemente il “Toccolo”, il soprannome che caratterizza tutta la sua famiglia, dal quartiere dove risiede. Con gli amici d’infanzia passa tutto il (poco) tempo libero che gli rimane a disposizione. “Non sono fidanzato – confida - e non ho molti grilli per la testa. Quando posso mi dedico al mio hobby preferito, suonare la chitarra. Lo faccio da sette anni, da autodidatta. Mi sarebbe piaciuto creare un gruppo ma le trasferte me l’hanno impedito. La mia musica del cuore? Heavy metal. I Metallica sono i miei preferiti, quando i miei pattini scivolano sul ghiaccio quel suono mi fa compagnia. Però mi raccomando: non dite in giro che strimpello la chitarra. Quando vado in giro mi chiederebbero di suonarla e allora sarebbe un disastro…”.

Una mentalità scientifica
Che cosa è rimasto, dell’Olimpiade di Torino, a poche settimane dalla conclusione ? Si può ancora parlare di sorpresa ? Enrico Fabris sotto questo profilo confessa il proprio scetticismo. “I risultati mi hanno sorpreso fino a un certo punto. L’obiettivo minimo era il podio. Chi non sogna, del resto, non crede in se stesso. Che voto merito? Se avessi vinto una medaglia anche nei 10.000 metri sarei da dieci, così invece merito qualcosa di meno, comunque un nove pieno. In tutti i casi mi è rimasta dentro, ancora oggi, una grande emozione. Quando ho sentito l’inno di Mameli in Medals Plaza mi è venuto il gruppo in gola.
Quello che sogno adesso è una minimo di popolarità non tanto per me quanto per il pattinaggio. Siamo in pochi a praticarlo, servirebbero nuovi atleti ma soprattutto nuovi impianti. Vorrei che la bellissima pista di Torino continuasse a rimanere in funzione. E vorrei anche che i miei successi rendessero la pista di Gallio, dove ho mosso i primi passi, un punto di riferimento per i nuovi pattinatori della mia regione. È una pista bellissima, in mezzo alla natura, però mancano le strutture di appoggio, serve qualcosa di più, serve il coraggio di fare un investimento minimo. Sono disposto, se del caso, a metterci anche la faccia”.
Chi è Enrico Fabris, invece, nella vita privata? Risposta secca: “Un ragazzo normale con amici normali. C’è un film, Ritorno al futuro, in cui mi riconosco. Ho una mentalità scientifica, più che umanistica. Mi affascinano l’universo, il tempo che scorre, la tecnologia. Quanto alle letture, nessun dubbio: in cima a tutti metto uno scrittore delle mie terre, Mario Rigoni Stern. Ho letto e riletto Storia di Tonle, con quelle tradizioni dei “Sette Comuni” che vengono tenute in vita sul filo della memoria. Mi piace la poesia che si filtra tra le righe”.
La poesia, d’accordo. E la prosa? Enrico ci ride su. “Se penso alla prosa – dice - penso a un bel piatto di pastasciutta. Ne vado matto. Mi piace qualsiasi tipo di pasta, con qualsiasi tipo di condimento”.
ADALBERTO SCEMMA
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©AGOSTINO LONGO
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