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LA CARICA DEI “BISONTI”

“Il rugby è una buona occasione – garantiva uno spirito libero come Oscar Wilde - per tenere lontani trenta energumeni dal centro della città”. L’immagine, sicuramente azzardata, è suggerita dall’ironia prima ancora che dall’evidenza. Non esiste infatti uno sport a squadre che più del rugby tenga in uguale conto l’aspetto agonistico e il rispetto per l’avversario. Lo certifica un efficace aforisma di Henry Blaha: “Il football americano è uno sport bestiale giocato da bestie. Il calcio è uno sport da gentiluomini giocato da bestie. Il rugby è uno sport bestiale giocato da gentiluomini”. E lo sublima un folgorante flash di Andrea Lo Cicero, il “Barone” che da anni è un punto fermo della Nazionale azzurra: “Il rugby è la poesia del sacrificio”.
A dare ulteriore impulso alla popolarità che accompagna oggi, anche in Italia, lo sport della palla ovale (stadi sempre stracolmi, boom televisivo in occasione del Sei Nazioni) ha contribuito di certo la crisi di un calcio messo alle strette dalle bande degli ultras. Ed è proprio il confronto tra due mondi così diversi, sotto il profilo della cultura sportiva, a suggerire a molti educatori una scelta controcorrente in direzione del rugby: lo prova il fiorire dei vivai giovanili e la propaganda capillare che viene portata avanti nelle scuole.
Origine comune, per calcio e rugby, ma sviluppi sostanzialmente diversi. Furono per primi infatti gli inglesi, fieri di rivendicare la paternità di entrambi gli sport, a dare origine, a praticare, a diffondere, a dividere e a regolare entrambi i movimenti. Inizialmente si giocava soltanto a “Football”, uno sport molto diverso da quello odierno dove il contatto fisico era più considerato delle qualità balistiche e quasi totalmente privo di regole ad eccezione di una: il pallone doveva essere portato avanti con i piedi.
Tra storia e mito, a marcare la linea di divisione tra calcio e rugby pare sia stato William Webb Ellis, uno studente della scuola di Rugby (paesino vicino a Londra), che durante una partita (era il 1823) decise di infrangere l’unica regola del “Football” ben nota a tutti: raccolse il pallone con le mani e dribblando gli avversari lo depositò in rete. Da qui nacque il “Rugby Football” ovvero il “Calcio giocato con le regole di Rugby”.
Da quel leggendario precedente il “Football” e “Rugby” presero due strade diverse, diverse non soltanto nel “modo di portare avanti il pallone” ma soprattutto dal punto di vista etico. Tra i giocatori e tifosi del rugby esiste un’alchimia indecifrabile, un senso di appartenenza, di lealtà e soprattutto di rispetto che non ha uguali.
Qui non troverebbero spazio quei calciatori che sputano addosso all’avversario, che simulano il fallo, che hanno l’ardire di contestare una decisione dell’arbitro (nel rugby le sole persone abilitate a interloquire con l’arbitro sono i capitani, non certo per contestare una decisione ma per chiedere una cordiale spiegazione…) o di quei delinquenti che si spacciano per tifosi.
Se un tifoso “calciofilo” assistesse a una partita di rugby probabilmente si troverebbe spiazzato: sbalordirebbe nel vedere che gli spalti non sono divisi in “settore locali” e “settore ospiti” (la partita si guarda tutti assieme perché non c’è la necessità di rimanere divisi…), e rischierebbe addirittura di trasalire se a fine partita si trovasse in un Pub a bersi una birra con i tifosi avversari commentando pacificamente la partita.

Tutti per uno, uno per tutti
Forse è soprattutto per tali motivi che la popolarità del rugby, statistiche alla mano, sta aumentando in modo inversamente proporzionale al calcio. Senza dimenticare naturalmente gli effetti della rivoluzione mediatica che, dopo l’ammissione dell’Italia al “Sei Nazioni” e la conseguente consacrazione anche televisiva della squadra azzurra, ha portato il rugby in tutte le case.
C’è una chiave tattica che nessun giocatore che si avvicini al mondo della palla ovale può permettersi di trascurare: nel rugby non servono le sortite individuali, l’unica filosofia consentita è quella del collettivo, come spiega efficacemente un critico-scrittore raffinato come Marco Paolini: “Il rugby è antico, lento, è una guerra di prime, seconde e terze linee e fanterie contrapposte, guerra di trincee. Fanterie che marciano a conquistare la terra del nemico. A rugby conta solo il fattore terra. Non è come il calcio, il blitz, il contropiede, la guerra-lampo, roba elegante, da individualisti. A rugby conta solo il gioco collettivo: terra da conquistare, linea dopo linea, fino all’ultima trincea che non a caso si chiama meta”.
Ad accrescere la popolarità del rugby ha contribuito anche il mito dei favolosi “All Blacks”, la squadra neozelandese che domina da decenni la scena internazionale. Qui il senso del collettivo (l’immagine è quella della “marea nera”…) è stato esaltato tuttavia da presenze individuali di straordinaria intensità come quella di Jonah Lomu, gigantesco atleta dalle progressioni devastanti.
Ma ci sono punti di riferimento importanti anche in Australia con i “Wallabies”, in Sud Africa con gli “Springbok” oltre che in Inghilterra. Proprio la Nazionale inglese, trascinata da capitan Wilkinson, ha sorpreso tutti vincendo infatti con un crescendo magistrale l’ultimo titolo iridato.
La squadra azzurra, approdata meritatamente al “Sei Nazioni” (il torneo allinea anche Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda e Francia) è affidata oggi a un tecnico francese, Pierre Berbizier, che ha trasferito nel nostro rugby la filosofia dei transalpini, molto più fantasiosi e molto più veloci degli anglosassoni.
I risultati cominciano già a notarsi, anche se le valutazioni dovranno essere tratte a gioco lungo. Proprio nel campionato francese giocano del resto alcuni tra i nostri campioni più popolari, come i fratelli Marco e Mirco Bergamasco, come Parisse e Dallan, tutti protagonisti nello Stade Francais, o come Alessandro Troncon, mediano di mischia del Clermont Auvergne, premiato come “uomo del match” nell’incontro del “Sei Nazioni” che ha opposto l’Italia ai campioni inglesi in uno stadio di Twickenham arricchito dalla presenza festante di ottantamila spettatori. Troncon, trevigiano, 33 anni, vanta il maggior numero di “caps” in Nazionale, 85 presenze nell’arco di tredici stagioni.
Presenze straniere sempre più infittite, per contro, nel nostro campionato. Le squadre del “Superdieci”, dalla Benetton al Calvisano, dal Viadana al Rovigo allineano neozelandesi, australiani, ma soprattutto argentini, arrivati da noi seguendo la scia dell’oriundo Diego Dominguez, fantasioso mediano d’apertura che in Nazionale ha segnato un’epoca e che ha lasciato una traccia di sé anche con la maglia dell’Amatori Milano, nella città natale della madre. Ma nel frattempo, stagione dopo stagione, stanno crescendo i talenti italiani. L’ultimo in ordine di tempo è Michele Sepe, ventunenne romano, ala della Capitolina. Un nome, il suo, su cui scommettere agevolmente per il futuro.

ADALBERTO SCEMMA


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©AGOSTINO LONGO
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